Anni fa feci uno
spettacolo traendolo dai Saggi danteschi di Borges e da altri scritti del poeta
argentino. Una gran fatica, ovviamente, imparare tutto a memoria con il tipo di
precisione che piace a me.
Poi, come sempre
succede quando le repliche finiscono, tutto è andato nel dimenticatoio o in un
qualche angolo remoto della mia memoria che non vuole più essere disturbato, al
punto che quando oggi, raramente, mi chiedono di rifare quel monologo, lo
sforzo per rimettere insieme i pezzi è quasi peggiore di quella prima
memorizzazione.
Tutto è andato nel
dimenticatoio – o nell’oblio, come amerebbe dire Borges – tranne un passaggio
che curiosamente resta sempre con me: “Il
caso (ma forse non esiste il caso, a meno che quello che chiamiamo caso non sia
la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità) mi fece
incontrare tre piccoli volumi nella Libreria Mitchell, oggi scomparsa, e che mi
evoca tanti ricordi. Quei tre volumi (avrei dovuto portarne uno come talismano,
oggi) erano l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, tradotti in inglese da
Carlyle (non Thomas Carlyle, di cui parlerò più tardi).”
Stamane, h 8,20
circa, dopo avere seguito una rassegna stampa, ho deciso di fare una cosa che,
pur essendo io anche un giornalista, ormai faccio molto raramente: scendere a
comprare il giornale, per l’esattezza Libero
– che per me, uomo non certo di destra e da un po’ di anni poco atletico, è
come fare un doppio salto mortale – dove c’erano due articoli che mi
interessavano, uno nel quale si spiegava questa curiosa (eufemismo!) storia del
numero dei nuovi contratti di lavoro dall’inizio dell’anno calcolato dall’INPS
del sig. Tito Boeri; l’altro del prof. Paolo Savona.
Ne approfitto per
andare anche a comprare le sigarette.
Realizzo ora,
mentre scrivo che, uscito dal portone, per andare dal giornalaio devo svoltare
a destra, per il tabaccaio a sinistra, e sempre qui, ora, mi ricordo che Borges
in quegli stessi saggi, quando racconta del viaggio di Ulisse dice che “a
sinistra, sul lato sinistro, nella Commedia significa il male: per scendere
all’Inferno si va a sinistra, per salire sul Purgatorio si va a destra.”.
Passate le colonne d’Ercole, Ulisse vira a sinistra, con tutto quello che ne
conseguirà.
No, non sto
associando il male alle sigarette, come sarebbe ovvio e giusto, ma al fatto che
dovevo cambiare venti leuri, e per non sentire il giornalaio rifarmi
simpaticamente la tiritera di quando compro la Settimana Enigmistica - unico
sfizio cartaceo settimanale rimastomi, a meno che non decida di comprare il
Blocco Enigmistico, così, invece di € 1,50 alla settimana, ci metto su solo €
1,80 al mese... - la tiritera del “venite tutti con i pezzi grossi di prima
mattina, passate prima a prendere il caffè”, decido di svoltare a sinistra e
andare prima dal tabaccaio.
Povero il mio
giornalaio! Lui non sa che io il caffè nei bar non lo bevo quasi più, perché
fondamentalmente mi fa incazzare dovere regalare tra gli ottanta centesimi e
l’euro per un caffè che nel 95% dei casi fa schifo, mentre confesso di non
avere problemi a lasciare ben € 1,10 ad una panetteria-bar del centro di Torino
che ha una miscela particolare e fa un caffè buonissimo. Perché come ho
imparato da un tal prof. Bagnai Alberto, la competizione non si fa sul prezzo,
ma sul rapporto qualità/prezzo.
Io lo so che
l’editoria è in forte crisi. Dei giornali e dei giornalisti, data tutta la
propaganda falsa e distruttiva, data la menzogna troppo spesso sistematica e
sistematizzata, me ne frega francamente poco: che paghino per le loro colpe. Ma
per il povero giornalaio, che è pure simpatico, mi spiace, mi spiace dover
fargli sommare rabbia (quella quotidiana perché non vende, fondamentalmente i
quotidiani...) al dispetto di presentarmi lì con un “pezzo grande” per una
spesa di poco più di un euro. E così, prima destinazione “tabaccaio!”, esco dal
portone e svolto a sinistra.
Ahi, Ulisse! Mal me
ne incolse.
All’angolo del
palazzo, con la coda dell’occhio vedo due anziani signori, un uomo e una donna
che chiacchierano. Non presto molta attenzione, li supero, ma la voce della
donna mi raggiunge implacabile, chiara come a volte anche fastidiosamente lo
sono le voci dei torinesi, sempre “lanciate”, sempre, frutto forse della
pronuncia di derivazione francese che inconsepevolmente le spinge, acute, a
superare il palato molle, e le parole sono nettissime: “Durante la guerra non mi mancava il mangiare, adesso mi manca il
mangiare!”.
Quelle parole che
da lei fuor porte, mi fermano. Mi
giro, la guardo. È una signora compita, modesta, nella quale si legge grande
dignità, che dice il suo pensiero, non con tristezza, o ricercando pietà, ma
con un senso profondo di sbalordimento, di incomprensione verso quello che le
sta succedendo. L’uomo di fronte a lei la guarda, in silenzio. Si capisce che
non sa cosa rispondere...
Vorrei avvicinarmi,
parlarle, ma vado via. Sento chiaramente che da un lato me ne manca il
coraggio, dall’altro non saprei cosa dirle, da un altro ancora sono preso dalle
mie commissioni, perché devo andare al lavoro, rapito anche io dalla trappola
che “io forse mi salverò” e abdicando così in un solo momento al mio pensiero
guida di questi tempi, quello che predico, ma che poi, mi rendo conto, al
momento opportuno anche io non so mettere in pratica: “Nessuno si salva da
solo”. E tradendo inoltre – lo realizzo ora – anche quel cristiano spirito di cui
dico di essere portatore, ché forse una sola parola di conforto le sarebbe
bastata. Non l’ho fatto, la vita – ma solo la mia – era più urgente.
Un senso profondo
di fastidio, di irrequietudine mi accompagna da stamattina e quelle parole di
una donna che poteva essere mia madre, non mi escono dalla mente: “Durante la guerra non mi mancava il
mangiare, adesso mi manca il mangiare!”.
Torno a casa, lo
racconto alla mia compagna, che è sulla porta per andare anche lei al lavoro.
Scuote la testa... alza le spalle avvilita... capisco che non sa proprio cosa
dire... si avvia, e prima di sparire nella svolta della rampa della scale, mi
guarda ancora un attimo... scuote la testa...
Continuo a
pensarci. Arrivo a scuola. Comincio lezione, ma a un certo punto non posso fare
a meno di raccontarlo ai miei ragazzi.
Tacciono tutti.
Uno, forse capendo il mio stato d’animo, mi chiede: “Beh, prof, è un confronto
un po’ forte.”, “È per quello mi ha colpito – gli dico – parlava della guerra
non di una cosa qualsiasi. Quando era piccola e c’era la guerra mangiava, ora
ha problemi... non è normale.“, “No, prof, non è normale...”
Sono svegli i miei
ragazzi, in gamba, discoli come si deve essere alla loro età, ma appassionati,
e quando vogliono molto disciplinati. Un giorno hanno voluto sapere perché ce
l’ho sempre con l’euro. Gli ho spiegato. Quattro principi base di economia che
tutti dovrebbero conoscere. Erano attenti e turbati. “Che si può fare, prof?”,
“Credo che la sola cosa da fare – gli ho detto – è capire. Non pensare di
delegare, a questo o quel politico, a questo o quel partito, ma capire e
impegnarsi in prima persona... non so dirvi altro”. “”Grazie, prof”.
Non so se ho fatto
bene, se gli ho spiegato bene, ma visto che potevo “metterli in allarme” l’ho
fatto, e poi... “avvenga che può”, come dice Pirandello.
La prova è filata
via liscia, ma, mi è parso, con un velo di tristezza, tanto che non l’abbiamo
nemmeno finita. Chissà se era vero o ero io, nel mio stato d’animo, a leggerla
così. E prima della prova hanno ascoltato in silenzio e con tanta attenzione
tutto quello che sapevo raccontargli sul problema delle prossemica... La paga è
poca, ma loro ti riempiono il cuore. Gli do tutto quello che posso, sapendo che
tanto capiranno tra anni e anni, come è successo a me e a tanti amici/colleghi,
perché è così l’insegnamento dell’arte: una semina che, se fruttuosa, prima o
poi troverà il suo germoglio, anche se non sapremo quando... si deve solo
lavorare, attendere, meditare, e quando meno te lo aspetti trovi la risposta.
Sono uscito da
scuola soddisfatto.
Ma quella signora
anziana, distinta e perplessa, che poteva essere mia madre, pure se questo non
fa comunanza, non mi esce dalla mente. Di tante parole che ho usato oggi, una
la potevo usare per lei. Non l’ho fatto...
Scrivo perché lo
sappiate. E per non dimenticare.
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