Vittorio
Gassman era un attore immenso. E su questo credo siamo quasi tutti d’accordo.
Quasi tutti, perché alcuni non lo sono.
Gassman
a costoro non piaceva. Personalmente non ci trovo nulla di strano, è così che
va quando ti esponi al pubblico, ad alcuni piaci ad altri no. Sciagurati coloro
che non lo comprendono prima di salire sul palcoscenico e si attendono un solo
unanime consenso. Costoro, viste le ultime tendenze della nostra politica,
farebbero meglio a cercare il successo elettorale piuttosto che lo spontaneo
applauso della gente. Ma lasciamo stare.
Gassman
era un attore immenso. E fino a qui ci siamo. Bisognerebbe chiedersi il perché,
e questa operazione è decisamente difficile con la professione attoriale, una
professione, come sovente si dice “scritta sull’acqua”, e soprattutto figlia di
una immediatezza di percezione e di rapporto che esclude spesso, e anche ben
volentieri, la riflessione. Si riflette magari sull’opera, sul suo significato,
su quello che un tempo si chiamava il “messaggio”, ma raramente, molto molto
raramente, sul perché un attore non solo ti piaccia, ma, in particolare, sia
importante o no; e quando diciamo “importante” è ovvio che intendiamo “nella
storia del teatro”.
Vittorio
lo è stato, ma non ho trovato ancora scritti convincenti su questo.
Ecco,
provo allora a dare la mia opinione.
Si
associa e si è associato per anni Gassmann all’idea del grande attore
ottocentesco, quasi egli fosse una appendice di un mondo perduto, che si guarda
con la stessa reverenza che si dà a una antica opera d’arte che mai più, però,
oggi nessun artista rifarebbe.
Ma
Vittorio, proprio perché era Vittorio (lo chiamo per nome non perché lo
conoscessi particolarmente – giusto un paio di cene insieme – ma perché è forse
il titolo più grande, più di “Maestro”, che si può dare a un attore,
riconoscerlo con il suo solo nome), Vittorio, con il passare degli anni non è
diventato “sempre più antico”, anzi, continuava a spiazzare e suscitare
discussioni, e stupore, così come ne aveva suscitati in gioventù.
Dunque,
c’era qualcosa di più di un figlio teatrale di Ermete Zacconi (spesso citato
malamente come esempio di recitazione da non replicare, in verità attore
sublime, basta guardare il suo “Processo e morte di Socrate”).
Cosa
ci fosse in realtà lo sappiamo anche se non vogliamo pienamente prenderne
coscienza, a mio vedere per ragioni politiche sulle quali magari in altro
momento torneremo. C’era per esempio una sterminata cultura, una conoscenza
profonda della professione e, non bastante la conoscenza, una precipua e
proficua analisi della stessa. C’era fascino, simpatia e antipatia, c’era
profondità e leggerezza... e NON c’era una cosa della quale fu invece a mio
vedere vittima Carmelo Bene che spesso, ingiustamente gli fu contrapposto, un
certa certa modalità “barocca” di utilizzare la fonazione.
Gassman
sapeva stare, sopra tutto negli ultimi anni, nella totale essenza della Parola
e della fisicità dell’Attore.
“Sì,
bene, benissimo, belle cose – mi starete dicendo – ma ancora non ci hai detto
perché il pur immenso Vittorio sarebbe nella Storia del Teatro”.
Vero!
Stringo e ci arrivo subito.
Tantissimo
si potrebbe dire della sua evoluzione attoriale, e pagine infinite sono state
riempite, ma c’è un aspetto che a mio vedere manca, un aspetto storico appunto.
Dobbiamo,
credo, focalizzare il periodo in cui Gassman entra in arte. È il dopoguerra, è
l’esplosione di una nuova frenesia creativa, è il tempo della nascita o quanto
meno del consolidamento del Teatro di Regia.
Il
Regista è il nuovo vate, il nuovo nume che possiede “i segreti” e li rivela
agli attori, i quali, miseri, senza di lui più non sanno, e non possono agire,
abdicando, così, a una predominanza nella scena teatrale che invece gli
appartiene pienamente, ad una esclusività che è sola dell’Attore.
Tutti,
ma proprio tutti, in quegli anni tra il ’45 e il ’55 paiono piegarsi
piacevolemente al nuovo ordine, i vecchi primiattori quali Ricci, o i nuovi
come Stoppa.
Intendiamoci,
non è che questo apporto nuovo, da parte di figure imponenti come Costa, e poi
Strehler e Visconti, non sia stato fondamentale per rivoltare come un calzino
il nostro teatro. Di fronte a loro, e a coloro che poco dopo sono arrivati, ci
dobbiamo sicuramente inchinare. Ma resta un dubbio: cosa sarebbe accaduto al
mestiere dell’attore, in questa nostra nazione, se non fosse arrivato quello
“spilungone allampanato”, come qualcuno amorevolmente lo definì, se non fosse
arrivato Vittorio?
E
già, perché Vittorio, intelligente, colto, curioso, metodico... pare, in
qualche modo, proprio in quegli anni, opporsi a questa tendenza. Naviga, certo,
agli inizi anch’egli nel rutilante nuovo mondo della regia, ma poi spicca
solitariamente il volo.
Gassman
si oppone, ma non si oppone per “tornare indietro”, si oppone perché un nuovo
attore prenda a calcare le scene del nostro Teatro. Un attore che si interroga,
che scruta, nel corpo e nella parola, nel gesto e nella voce, nella propria
funzione artistica e sociale, un attore che “metodologizza”. Pare rivendicare,
ancora, di fronte alla nuova e importante – lo ripeto – tendenza, la
indiscutibile, sempre, centralità dell’Attore. Nella consapevolezza, però, che
questo Attore deve egli stesso compiere un balzo in avanti per rimanere al
proprio posto.
E
Vittorio, in uno sforzo prima di tutto intellettuale – che forse pagherà avanti
negli anni con i disturbi nervosi che spesso ha raccontato – compie
inequivocabilmente questo balzo, costringendo, a mano a mano, tutti i suoi
colleghi ad adeguarsi o morire.
Quel
piccolo episodio da lui stesso narrato, mentre sotto regia di Visconti
allestivano “Oreste” di Alfieri (1949), quando il Maestro milanese gli urlò:
“Datti da fare, non sei ancora Talli”, e lui rispose: “E tu non sarai mai
Stanislavskji!”, forse ci racconta proprio questo: la strenua voglia di
ribadire, anche nel nuovo mondo della regia, la centralità indiscutibile
dell’Attore, una istintiva ribellione che ha fatto certamente bene al Teatro e
colloca Vittorio su di un gradino speciale nella storia di questo mestiere.
Anche
per questo, non regge la contrapposizione con Carmelo Bene, e nemmeno, per
certi versi con Albertazzi, e poi con altri. Perché costoro, alla fin fine,
sono tutti suoi figli, che hanno estremizzato, o hanno sviluppato, o raccolto
una eredità, o l’hanno dissipata, non importa, ma senza quella opposizione,
quel reclamare “il ruolo”, tutti gli altri, dopo, ci sarebbero stati?
Io
non credo.
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