giovedì 12 luglio 2018

LÌ, DOVE IL TEATRO MUORE (1)

Il Teatro non è soltanto una pratica artistica, è un modo di vivere, di essere, di affrontare il mondo.
Non sono mai stato, da ragazzino, in colonia, e da adulto, causa terremoto dell'80, mentre ero per partire sono stato esonerato dal servizio militare. La "dominante" della mia vita era: stare da solo; e per certi versi lo è ancora (a volte mi fa piacere, a volte no).
Ma quando penso al momento in cui ho imparato il senso della disciplina, il rispetto delle regole e degli altri, l'eseguire il compito assegnato, il valore e a volte la fatica della convivenza, ma anche la capacità di difendere me stesso e i miei spazi, penso ai tre anni dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio D'Amico".
Sembrerà impossibile ai più che una scuola artistica - vista in genere come il film "Fame - saranno famosi" (a me caro poiché durante la sua visione diedi il mio primo bacio) - possa essere vissuta come il servizio militare, eppure è stato così. D'altronde, non si chiama Accademia anche quella gloriosa di Modena? E allora perché i presupposti non dovrebbero essere gli stessi? Perché gli artisti sono "stravaganti"? Luoghi comuni, solo luoghi comuni.
Gli artisti, o per meglio dire i lavoratori dello Spettacolo, gli artigiani dello Spettacolo, vivono in un regime di profonda e costante disciplina, anche se non si vede, anche se non appare, anche quando dicono di professare il senso della sregolatezza. 
Ed è così sempre, per tutti coloro che durano nel tempo. Se... non durano, evidentemente qualcosa non ha funzionato proprio nell'abbandonarsi alle regole. 

Regole che possono essere suddivise in quelle che guidano il rapporto con la nostra interiorità e quelle che guidano le relazioni con gli altri, con l'esterno. 
Non mi è ancora chiaro quanto siano diverse, a volte mi pare che in realtà non lo siano affatto, di sicuro sono assolutamente complementari. E hanno una caratteristica: ciascuno può gestirle come preferisce senza mai veramente eluderle, senza mai invadere il campo altrui, cosa facile da comprendere perché una regola detta sempre un limite, e anche il superamento del limite è una idea di limite.
Un'altra qualità certa, poi, e pure questa di facile comprensione, è che entrambe le tipologie di regole gestiscono il rapporto con la propria professionalità e con la professionalità del lavoro. 
"E non è lo stesso?", chiederà il solito facilone dei nostri giorni. No, non lo è: perché si può avere professionalità del lavoro, ma non essere professionisti (a volte anche essere professionisti senza professionalità del lavoro, ma è un traguardo della maturità, i giovani ne stiano alla larga). 
Mi spiego con un esempio facile: da dove deriva professione (e dunque professionalità)?
Da professare, e per la sua etimologia il vocabolario ci dicePubblica manifestazione d'un sentimento religioso, di un'opinione e simili, e ancora: Esercizio di un'arte nobile, di quelle, cioè, che si possono professare, ossia insegnare dalla cattedra (da cui anche professore). 

Dunque, la professione è la pubblica dichiarazione di un credo interiore, e se è un credo interiore non ha bisogno di "regole" (parrà un paradosso) perché è regola in sé, è un sentire che non può che condurti per una retta via, quindi non avrai bisogno di importi delle cose da fare, ma le farai perché non puoi vivere diversamente. Per capirci con qualche esempio: io non vado in teatro un'ora prima dello spettacolo perché "è professionale", ma ci vado, anche due ore prima, perché mi piace stare in quel luogo, e solo in quel luogo io mi sento a casa, mi sento a mio agio; non rimetto a posto il mio costume alla fine dello spettacolo perché è professionale e/o si arrabbia la caposarta, ma perché nel costume io vedo il mio personaggio, riconosco un pezzo di me e del mio lavoro, un pezzo di ciò che faccio e di ciò che sono, e dunque sento come naturale trattar bene quella parte di me. 

La seconda parte della spiegazione del vocabolario etimologico è forse ancor più interessante. Cos'è in fondo il nostro mestiere, la nostra professione? Io credo sia niente altro che "un passaggio di testimone": ciascuno di noi ha appreso il mestiere da qualcun altro che gli ha consegnato il testimone che aveva precedentemente ricevuto; nostro compito è tenere quel testimone lucido e in perfetta efficienza per riconsegnarlo a chi verrà dopo di noi, se possibile - se possibile - anche un po' più lucido di come ci è stato consegnato. È in questo meccanismo che tutti divengono uguali e di pari importanza, i primi attori come gli ultimi, chi ha avuto successo e chi prosegue la sua vita di disciplinata dedizione al Teatro in silenzio e fino alla fine. Perché tutti sono ugualmente indispensabili al gioco. Servono i protagonisti come "i maggiordomi". Nessuna persona è indispensabile, ma nel gioco indispensabili sono i ruoli. Forse è perché comprendono questo che i veri grandi sono come impregnati di umiltà. 
(Questo senso dell'uguaglianza non deve trarre in inganno le giovani generazioni, perché quel posto in alto, o nel camerino davanti al tuo, o il posto in fila al ringraziamento più centrale del tuo, quell'attore anziano se lo è guadagnato con anni di dedizione e fatica. Rispetto e buona educazione la fanno sempre da padroni come nella vita (dunque, per favore, prima di dare del TU a un attore anche poco più grande di voi, chiedete il permesso; ché se lo farete non vi verrà mai negato).)  

Ora, tornando alla seconda parte del dizionario: la professione certamente cambia col passare del tempo e delle mode, ma non cambia nella sostanza. Non tutti, anzi pochi di noi salgono effettivamente in cattedra per insegnare il mestiere, ma la professione offre una straordinaria possibilità: insegnare il mestiere senza mai salire in cattedra. Come? Ma con il proprio vivere la professione, facendo la cosa più semplice del mondo: testimoniando il proprio credo quotidianamente. 
Io vivo il mio essere attore e sono in contatto con attori più giovani di me che mi vedono vivere, e nel contempo ci sono attori più grandi di me che io vedo vivere, e tutti impariamo dagli altri avendo ben presente la nostra voglia di osservare i più anziani in quanto specchio di una vita nella professione, in quanto proiezione della vita che abbiamo abbracciato, perché da un lato ci rivediamo nella giovinezza che è stata nostra, dall'altro confidiamo di essere in quella anzianità che ci vediamo dinnanzi. 
In questa naturale ciclicità, ogni gesto che compiamo nel nome del nostro credo è un insegnamento che impartiamo non solo agli altri ma a noi stessi, rinnovando ogni giorno, come un vero sacerdote la nostra "professione di fede", che niente altro è che "professione di amore". 
Il Teatro, il lavoro dell'Attore si può solo amare. 

tic

tac

tic 

tac 

Che accade? Sentite questo ticchettio? Pare come l'inquietante segnale della presenza di... 

UNA BOMBA!!! 

E sta per esplodere! 

tic 

tac

tic 

tac 



Bello tutto quello che avete letto finora, vero? Intenso, complesso, caldo, appassionante. Vien quasi voglia di fare l'Attore, vero? 
Eppure, tutto questo sta mortalmente sparendo. Mortalmente. La morte sta lentamente abbracciando il Teatro e la professione attoriale. E se non vi si pone mano subito, la fine sarà inevitabile. 

Già, perché tutte le belle cose che vi ho scritto (e molte altre ce ne saranno, oggetto di altri post), accadevano in un luogo che sta scomparendo dalla scena teatrale italiana: la Compagnia di giro! 

Questa strana comunità, la Compagnia di giro, che per un tempo oscillante tra i quattro e i nove mesi, si muoveva, ogni santo inverno che nostro Signore mandava in terra, almeno negli ultimi quattrocento anni, per la nostra penisola e non solo, da una città all'altra, da un paese all'altro, che passava dal Veneto alla Sicilia nel giro di due giorni, di palcoscenico in palcoscenico, dai teatri grandi e organizzati a quelli piccoli e privi di comfort. 
La Compagnia di giro, questo strano organismo contemporaneamente aperto al mondo e chiuso in se stesso, viveva su di una struttura solida, precisa e disciplinata. Chi entrava a farvi parte era ben contento di accomodarsi nelle sue regole, di scambiare quotidianamente i propri umori, mentali e fisici, con i colleghi, lieto di apprendere dai più anziani i segreti di una professione, di stare gomito a gomito con "i grandi" e di condividere le giornate con i piccoli. Non tutti ti erano simpatici, ma imparavi la convivenza con tutti. Si rideva insieme, si litigava, si viaggiava e si condividevano dolori e speranze. 
Un mondo in movimento nel quale il grande e antico gioco del teatro si ripeteva ritualmente ogni giorno, conducendo l'attore, quotidianamente, nella sua dimensione più profonda. Ogni recita era gara e allenamento insieme, la prova finale e l'inizio della prova successiva. 
La Compagnia era il luogo dove accogliere e condividere il mistero della "struttura del teatro", riconoscere le gerarchie indispensabili alla sua sopravvivenza, capire che la loro perpetua rigenerazione era ed è linfa vitale e indispensabile per la professione

Le nuove leggi con cui si è pensato di regolamentare il Teatro in quest'epoca di globalizzazione della qualunque, anche delle culture, di libero mercato volto a sottopagare chiunque, in primis gli attori, in quest'epoca di uno Stato che vuole farsi sempre più assente dal sovvenzionamento delle attività culturali se non per creare centri di potere che dettino l'indirizzo culturale, aggregati impenetrabili del pensiero unico... queste nuove leggi stanno portando alla scomparsa del luogo in cui si perpetuava il senso profondo della professione. Le nuove norme parlano di stanzialità, di quantità, di produttività, rinnegano nel profondo la filosofia girovaga su cui il nostro teatro si è costruito e che, soprattutto, gli è valso il valore e la fama che ancora lo contraddistingue, quanto meno agli occhi degli stranieri. Si spinge la professione verso un generico odore impiegatizio, costringendo gli attori a stare a casa, dove la casa non è più il teatro, il camerino (ormai pari allo spogliatoio di una palestra), ma le quattro asfittiche mura domestiche! Il nuovo CCNL parla già di stipendio mensile... il resto va in conseguenza. 

Il termine del percorso è chiaro: distruggere la professionalità per tagliare le radici con una tradizione culturale e istituire il globalismo della cultura, avere lo stesso Musical a Roma come a New York, al pari dello stesso venditore di hamburger e di mobili componibili. E che il teatro sia fatto da professionisti o da amatoriali, cosa cambia, chi volete che se ne accorga se il gusto si adatta non distinguendo più tra un mobile artigianale e uno di ikea? Luci, costumi, paillettes, nani e ballerine... e poi nello stupore dei colori tutto andrà bene. 
Se voglio realizzare questo progetto, è chiaro che gli attori, i professionisti, quelli del Credo vissuto quotidianamente, devono scomparire e con essi il mondo che li ha allevati e perpetuati nei secoli.
Basta avere una burocrazia capestro che massacri le compagnie private (quelle che hanno dato lavoro alla stragrande maggioranza dei lavoratori dello spettacolo per decenni!), una burocrazia che gli crei mille difficoltà, una improponibile competizione, anche se non palese, con gli Stabili che possono contare sui fondi pubblici; basta un CCNL pensato solo per i rapporti con le strutture pubbliche e che renda la vita impossibile alle piccole compagnie e/0o al privato; basta che i giovani non conoscano più quel tipo di vita! Con essa cadranno le regole, verso l'interno e verso l'esterno, e di conseguenza il secolare senso della professione che infatti - chi fa il mestiere da anni lo ha già capito - va sempre più verso il crinale della precarietà e soprattutto della amatorialità. 

La morte lenta del teatro sta cominciando da qui, dal togliere pian piano ma inesorabilmente l'ossigeno alla Compagnia di giro, alla tradizione italiana per eccellenza, quella che nobilmente discende dai comici dell'arte, sottraendo agli attori la possibilità di riconoscere la loro storia secolare, di consegnarsi di mano in mano le tradizioni. Provate a chiedere a un giovane di oggi, allevato a spettacoli da "un mese di prove e due replice", se sa come si regola l'ordine dei camerini, se sa riconoscere un "primo camerino" e se ha idea di quali siano le regole per cui si costruisce un ringraziamento o l'ordine delle foto nel foyer o dei nomi sul manifesto, o se sa cosa sia un baule o un "cumulativo".
Un tempo, i vecchi attori si divertivano a fare con noi un "crudele" giuoco, ponevano la domanda delle domande (in tre parti): 
- si mangia prima o dopo lo spettacolo?
- di che colore è il bonifico? 
- ogni quanti giorni si prende la paga?
Se rispondevi "eri un attore". 
Il maggior numero di vittime la faceva il bonifico (che era una carta verde per avere lo sconto viaggio che già ai miei tempi non usava più), sul resto venivamo quasi sempre promossi. 

Oppure, tra due attori sistemati nello stesso camerino, chi ha il diritto di sedere più vicino alla porta? E le relative due targhette con nomi come devono essere disposte sulla porta? 

Follie, dirà qualcuno, eppure se siamo arrivati fino a qui, è perché ci siamo trasmessi il senso di questa impalpabile struttura, nella quale abbiamo amato stare. Dai vecchi abbiamo imparato, e pare che con grande difficoltà riusciremo a re-insegnare ai giovani il gioco, la struttura meravigliosa che ci ha fatto ingoiare felicemente centinaia di ore di tristezza, solitudine, silenzio, dolore... 

Se il testimone cade, la squadra è eliminata. 





Vi lascio con un brano tratto dal libro "Attori, Mercanti, Corsari" di Siro Ferroni

" "Venga il canchero a questa professione ed a chi ne fu l'inventore! Quando mi accomodai con costoro, mi credevo di provare una vita felice: ma la ritruovo appunto una vita da zingari, quali non hanno luogo fermo né stabile. Oggi qua, domani di là; quando per terra, quando per mare e quel ch'è peggio, sempre vivendo su l'osteria, dove si paga bene e stassi male. Poteva pur mio padre mettermi a qualche altro mestiero, nel qual credo che avrei fatto miglior profitto, e senza tanto travaglio, poiché chi ha arte ha parte in questo mondo, soleva dire Farfanicchio mio compagno. Pacienza, io ci sono entrato e basta in questa professione romperci un paio di scarpe, per non se ne levar mai più". (Domenico Bruni, attore del '600)
Nel gergo dei commedianti "rompere le scarpe" è quasi sinonimo di recitare, che registra insieme al danno e alla fatica del mestiere, la fatale accettazione di un destino (...) È stato giustamente scritto che gli attori si mossero per guadagnarsi da vivere. È vero, ma è solo una parte della verità. Non si spiegherebbero altrimenti né la persistenza del mestiere in attori affermati che raggiunsero, grazie al teatro e ad altre professioni collaterali, una relativa sicurezza economica, né le scelte addirittura contrarie all'interesse economico immediato che fecero altri, preferendo l'arte del recitar viaggiando a qualunque occupazione stanziale. La lotta per la sopravvivenza è inseparabile in questi umili attori dalla ricerca della libertà.

Ora chiedetevi per quale motivo avete scelto questa professione. 

Nessun commento:

Posta un commento

dite pure quel che volete, siete solo pregati di evitare commenti inutili e volgarità.