sabato 28 luglio 2018

IL FORTINO DELLA RECITAZIONE - LÌ DOVE IL TEATRO MUORE (3)

L'altra sera sono stato a vedere "Le rose di Atacama" tratto da Luis Sepulveda, interpretato da Mattia Mariani e Silvia Nati. 
Per la prima volta in vita mia ho pianto a calde lacrime: a fine spettacolo ho abbracciato Silvia e ho pianto.
Si può pensare che sia stato un segnale della vecchiaia, invece il motivo della commozione mi è stato perfettamente chiaro e l'ho comunicato ai due interpreti. 














Mattia Mariani è un bravo attore, figlio e nipote di attori. I suoi genitori sono stati fondatori e parte attivissima dello storico Gruppo della Rocca, suo zio è Giulio Brogi.
A "La Silvia" - per gli amici anche "La Nati", purché detto sempre con lieve strascicatura toscana perché "La Nati" è di  Bagno a Ripoli - avevo 
 già dedicato un post che ha avuto anche un buon numero di lettori. 
Il motivo delle lacrime ve lo espongo subito, devo soltanto ancora dirvi che, sebbene il discorso riguardi entrambi gli interpreti, per motivi affettivi mi riferirò esclusivamente a "La Silvia": ci conosciamo dai tempi dell'Accademia d'Arte Drammatica "S. D'Amico", dove io entrai nel 1986 e lei l'anno successivo, abbiamo dunque condiviso la goliardia della gioventù, siamo sempre rimasti legati da sincera amicizia, e soprattutto - quale cemento migliore per due attori - siamo stati scritturati insieme per due intere stagioni da Valeria Moriconi, per gli spettacoli "Trovarsi" di Pirandello (regia di Patroni Griffi) e "La nostra anima" da Savinio (regia di Egisto Marcucci). 

L'altra sera, come dicevo, la Nati mi ha commosso fino alle lacrime. 
Le rose di Acatama, è un bello spettacolo, dove si raccontano terribili e splendide storie della dittatura cilena, ma non sono stati i contenuti a commuovermi. 
A un certo punto, il personaggio di un professore esule in Germania dice mentre stringe un libro di poesie cilene al cuore che "La nostra lingua è la nostra patria". 
Improvvisamente mi è tornata in mente la splendida asserzione di Pessoa: "La mia patria è la lingua portoghese", e poi che c'è un'altra frase, di Leopardi, che però non sono riuscito a ricordare esattamente, ma che dice praticamente la stessa cosa. 
Da quel momento il mio ascolto, non so perché, si è fatto ancora più intenso, e arrivato all'ultimo racconto, quello in cui La Silvia ci dice cosa sono le rose di Acatama (un pezzo che fa in una maniera assolutamente sublime), ho compreso: stavo assistendo, stavo ascoltando una cosa che è diventato ormai quasi raro ascoltare, la vera, grande recitazione italiana, la recitazione della lingua e nella lingua italiana, fatta di musica pura e di colori meravigliosi, di linee sinuose e di ritmi, ascoltavo la nostra lingua morbida e dolce, dura e terribile... e soprattutto, capivo ogni cosa, e non perché capissi le parole in quanto semplicemente (e stupidamente) ero di fronte a una bellissima dizione, no: io spettatore capivo ogni cosa perché non dovevo fare alcuno sforzo per ricostruire nella mia testa le frasi che venivano dette, né cercare di capire il perché venissero dette: tutto era chiaro, il senso era chiaro, e mi è sembrato di essere stato dolcemente condotto sotto la cascata di acqua calda in una piscina termale. Quella - io mi vi riconoscevo - era la mia lingua, la mia patria, il mondo teatrale in cui sono nato e cresciuto e che quotidianamente e normalmente era intorno a tutti noi.  



Di sicuro qualcuno si starà chiedendo chi sia questo genio di attrice e se io, complice l'affetto, non stia esagerando.
No, non esagero. Per il semplice motivo che conosco la Silvia da quando teatralmente è nata, come lei conosce me. Tra noi, come con altri, ci siamo visti crescere e maturare nel tempo, giorno dopo giorno nell'apprendimento del mestiere e oggi siamo alla maturità. Maturità che dovrebbe garantirci una occupazione continuata, e invece, come tanti altri colleghi, dignitosamente combattiamo strenuamente per mettere insieme la necessità della sopravvivenza quotidiana con la necessità dell'espressione quotidiana. 
Ne conosco tanti altri come la Silvia, che sanno davvero fare il proprio lavoro, che hanno davvero appreso il mestiere e ai quali capita pure che ogni tanto "sfuggano di mano" cose straordinarie. Perché secondo me è così che funziona l'arte: tu fai ogni giorno il tuo onesto lavoro di artigianato, poi ogni tanto qualcosa ti sfugge dalle mani... e gli altri si accorgono che è arte. Gli altri, non tu, per te è sempre il tuo onesto lavoro di artigianato. 

Nella mediocrità che imperversa, il più genuino senso del mestiere si va annacquando, e perdendo, si grida al miracolo per cose che non sono nemmeno "l'onesto lavoro di artigianato", cose (e non posso definirle diversamente) in cui palese è l'inadeguatezza tecnica dei suoi protagonisti. Guardavo la Silvia e per un attimo mi è venuto in mente un contraltare come questo, purtroppo. Ma poi i cattivi pensieri sono stati velocemente ricacciati indietro dalla forza della bellezza, dal constatare una vera conoscenza della recitazione italiana, la recitazione nella propria lingua, la recitazione che si fa sostanza e corpo, la normalità di un tempo, l'aver contezza dei "ferri del mestiere", della musica, profonda, insita nella propria "patria". 

Questo mi ha commosso. Per un attimo ho riascoltato la mia "patria", la nostra "patria", e l'ho vista, sola, come un fortino nel deserto che si difende strenuamente dagli attacchi della mediocrità e del facilismo imperante, dalla decadenza della professione e delle regole, dalla semplicità e creatività che sono punti di arrivo dopo faticosi percorsi e non balordi e inconsistenti punti di partenza. 
Ognuno di noi - ho pensato - è proprio come un fortino che, solo, difende la musica, la storia, le radici, la cultura della nostra lingua. E non per chiuderla, ma perché essa si offra sempre a nuove e faticose esplorazioni. Ma esplorazioni che possono solo nascere dalla conoscenza profonda e non dalla genericità e dalla superficialità in nome di una creatività che in realtà serve solo a giustificare l'inconsistenza e la mediocrità. 

Uno dei motivi della decadenza del nostro teatro, ho pensato, è nel fatto che i nostri registi non sanno più lavorare sulla recitazione, non sanno più lavorare sulla lingua, sulle sfumature della lingua, sull'ampia e infinita gamma di suoni che essa può produrre e sulle differenze che immancabilmente ci sono tra una sfumatura e l'altra. Se per lo scrittore Flaubert era vero che "una sola parola può esprimere un concetto, tutte le altre sono sbagliate", a maggior ragione per un attore e per i suoi registi deve essere vero che una solo "intonazione" può esprimere un concetto, tutte le altre sono sbagliate. E la ricerca "nel suono, nella lingua, nella musica della lingua" non è un pezzo secondario, una fastidiosa appendice, ma una colonna portante e imprescindibile. 
Quelli che oggi sanno fare questo lavoro sono ormai diventati pochissimi. 

'A concentrazione, er pathos, ll'energggia, er personaggio, 'a psicologia, er corpo, 'a caduta, l'intenzità... E poi le possibilità espressive della tua lingua si perdono. Perché "l'orecchio" si fa, come si fa l'apprendimento del mestiere, la musica si coltiva come si coltiva un ulivo saraceno.
La "patria" non è un campo chiuso, è un campo da esplorare. 

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