domenica 25 marzo 2018

TORINO CITTA' SENZA IDENTITA'















La notizia di un forte calo delle presenze turistiche a Torino, circa un 20%, appresa nei giorni scorsi dalle pagine del quotidiano in foto (Corriere della Sera - Torino), paradossalmente, non deve sconcertare. Non poteva che essere così.
Non sono però certo che questo ai torinesi si possa dire. Prima di tutto perché non si sa dove siano i torinesi; quindi perché significherebbe obbligare la cittadinanza a confrontarsi con una amara verità: la riconversione della città da polo industriale a turistico è fortemente limitata dalla storia stessa del capoluogo di regione e non può portare i risultati sperati.
Le ragioni di questi limiti vanno ricercate proprio nella sua “vocazione industriale”, ricordando però che Torino non nasce industriale per volontà di natura, ma lo diviene per mano dell’uomo, e le scelte che furono fatte, soprattutto nel secondo dopoguerra, mostrano oggi le loro conseguenze. 
Tralasciando quel caso unico al mondo che è Venezia, al di là di Colosseo o Cristo velato, di Uffizi o Cappella Palatina, quel che un turista va a cogliere in una città è il suo spirito, il suo profumo, la sua identità.
Torino, amaro dirlo, è una città che non ha più identità. L’ha perduta, e da tempo.
La ragione può spiegarcela un grande torinese, Carlo Levi, che per tutta la vita si occupò di emigrazione, fondando la FILEF e basando su tal tema la sua vita da parlamentare del PCI.
Nel discorso al Senato del 9 aprile 1970, fiducia al governo Rumor, Levi ci spiazza con una osservazione che, riletta oggi, suona quasi blasfema. Con grande nettezza afferma: poiché l’emigrazione è sempre una violenza subita dall’emigrante, l’integrazione, egli sostiene, è “lo sradicamento definitivo”, quindi: “uguali diritti sì, integrazione NO”.
E in altre sue pagine ci offre una ulteriore curiosa considerazione: se è vero che le diversità sono una splendida ricchezza, va considerato che l’integrazione non le esalta, ma le annacqua fino al dissolvimento.

C’entra tutto questo con la crisi turistica torinese? Sì, se si valuta il fatto che dagli anni ’50 in poi la città è stata quasi costretta “dalla fabbrica” a un costante processo di integrazione.
Nella mia passione per i dialetti italiani, chiesi un giorno a un tassista come mai non sentissi parlare il torinese dai torinesi. Mi rispose con chiarezza, che quando nelle scuole elementari degli anni ’50 e ’60 arrivarono i bambini pugliesi o calabresi si era praticamente costretti a parlare italiano. Risultato: oggi nessuno conosce più il dialetto.
Ragionamento semplicistico, si dirà, ma davvero così privo di fondamento? Se uno “straniero” dovesse fare la caricatura del torinese tipico, tolta la storica immagine di Macario, cosa gli verrebbe in mente? E se chiedesse quale sia il classico cibo da strada cittadino, quale risposta avrebbe? Quante vere piole trova ancora in città, e dov’è finito il repertorio canoro torinese?   
Vai a Napoli anche per la napoletanità, a Roma anche per la romanità, a Siena anche per sentire i senesi disprezzare i fiorentini, o a Catania per annusare il perenne scontro con i Palermitani. Dov’è la “torinesità”? 
Questa sorta di multiculturalismo prima di tutto italico, per cui “il colonizzatore” piemontese - come direbbero i neo-borbonici - si è alla lunga ritrovato colonizzato da pane pugliese, mozzarelle campane, gelaterie siciliane, arrosticini abruzzesi… e poi l’allargamento al mondo tra kebab e sushi, cibo libanese o indiano... non va considerato un male. Ma un pezzo della “offerta turistica”, quello che nessuno può vendere perché non si può fabbricare, l’identità di una città, da tempo è venuto a mancare; e i monumenti da soli non bastano. 
Tutto ciò rischia di rendere “la bella d’Italia”, citando il Goldoni, in realtà scarsamente attrattiva, considerando anche che a un passo ci sono paesi, paesaggi e storie delle sublimi Langhe o delle splendide Alpi.
Dunque la riconversione della città da industriale a turistica è destinata a fallire?
No. No se si prosegue sulla strada percorsa fino a poco tempo fa: inventare, proporre, investire copiosamente in grandi eventi. Eventi unici, particolari, di alta risonanza nazionale e internazionale che possono trascinare tutto il resto.
Se la tendenza sarà invece quella del “braccino corto”, la voglia di turismo di Torino è destinata a sgonfiarsi, a ricadere nella abulia, nella noia, nelle nebbie. 




 









tutte immagini tratte da Corriere della Sera - Torino del 22 e 24 marzo


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