mercoledì 1 febbraio 2017

RECITARE O DIRE LA POESIA (dialogo fa un allievo e un maestro)

La Poesia si recita o si dice?
(dialogo propedeutico tra un Allievo e un Maestro)


A - Ma la poesia si recita o si dice?
M - Bella domanda! L’idea che si è fatta strada negli ultimi anni è che la poesia “si dice e non si recita”, ma così non può essere per tanti motivi. Considera innanzi tutto il fatto non casuale che questo concetto si è fatto strada negli ultimi 50 anni.
A - Vuoi dire che prima non ce lo si chiedeva?
M - Poco. Lo si dava per scontato, si eseguiva e basta senza farsi troppe domande.
A - Cioè non ci si interrogava sul problema?
M - Certo che ci si interrogava, come ci si è sempre interrogati, solo che non si sentiva il bisogno di scrivere le risposte, di dare organicità ai problemi. Voglio dire che il lavoro era profondamente artigianale - come in verità ancora è! - e tutto trovava soluzione semplicemente nel fare. Soltanto da un certo periodo in poi si è presa l’abitudine, per certi versi ottima, di scrivere, di ragionare, di scambiare le opinioni, di creare una metodologia, di me-to-do-lo-giz-za-re. Più o meno dalla fine dell’800 in poi. Diciamo, per intenderci, che prima le cose si facevano e basta,  parlandone tra attori e passandosi “il mestiere”: regole, modi, tecniche, opinioni... tutto, insomma, rimaneva circoscritto alla pratica della professione; da un certo momento in poi il ragionamento si è come “aperto al mondo”. Questo ha comportato che altri, non del mestiere, siano “entrati nel ragionamento”, il che non è stato propriamente un bene, ma ha anche portato nella discussione differenti punti di vista che l’hanno certamente arricchita e alimentata, e questo invece è sicuramente un bene.
A - Tu credi dunque che solo gli attori debbano parlare di Teatro?
M - No, io credo che solo gli attori possano parlare di Recitazione, è diverso. È la loro Arte, e solo chi vive pienamente un'arte ha conoscenza diretta di felicità e infelicità.
A - Felicità e infelicità?
M - In tutte le espressioni artistiche esistono “zone” del lavoro che non possono essere raccontate, o che si possono raccontare solo con grande difficoltà attraverso metafore, allusioni, traslazioni. Chi invece vive in quell’arte capisce senza bisogno di racconto la sensazione del collega. Prendi ad esempio “le storie sugli incidenti teatrali”, quei piccoli accadimenti della scena o della vita del teatro che gli attori si raccontano tra loro magari la sera a cena dopo spettacolo; fai caso: essi ridono di quei racconti, o ne condividono la “tragicità”, in maniera piena e immediata, ma se alla stessa tavola sono seduti dei non attori, questi non parteciperanno mai allo stesso modo. Simile meccanismo per le questioni metodologiche, che passano tra teatranti agilmente giacché sono quotidianamente condivise. In verità, penso sia così in tutte le professioni: solo due chirurghi possono davvero sapere cosa può voler dire... sbagliare a incidere con un bisturi.
A - Se ho ben capito, fino a un certo periodo non si è sentito il bisogno, per un problema come appunto “la poesia si dice o si recita”, di “mettere per iscritto” le proprie riflessioni, poi qualcosa è cambiato.
M - Sì.
A - Cambiato cosa, però?
M - È cambiato tutto, è cambiato il mondo, è cambiato il modo di guardare l’uomo e di parlare di lui. Credo sia innegabile che nel momento in cui sbuca sulla scena un certo signor Freud tutto cambia, in ogni settore, in tutte le arti. La pittura: osserva come potentemente si trasforma tra fine 800 e inizio 900. In musica: pochi anni per passare da Brahms a Berg. Perché, dunque, in Teatro doveva essere diverso, perché per l’attore doveva essere diverso?
A . Beh, ma non è che tutti abbiamo letto Freud...
M - E questo è l’aspetto davvero interessante! Certamente, non tutti abbiamo letto Freud; ma ti dirò di più: mentre Freud lavora a Vienna, a Mosca un piccolo signore di nome Cechov scrive i suoi capolavori. Per quello che ne sappiamo nessuno dei due aveva notizia dell’altro. E qualche anno dopo, mentre un signore di nome Pirandello scompone, quasi viviseziona l’animo umano, da un’altra parte del continente un signore di nome Pessoa fa praticamente la stessa cosa, e per quanto se ne sa i due non si sono mai né parlati né incontrati.
A - Come è possibile?
M – La mia sensazione è che, evidentemente, qualcosa “gira nell’aria”: come posso dire?, qualcosa attraversa i tempi, si muove e cambia il modo di vedere il mondo, lo si voglia o no. L’umanità, possiamo immaginare, si muove più insieme di quanto crediamo, le idee viaggiano, e hanno sempre viaggiato, più di quanto percepiamo.
A - Dunque Freud è fondamentale, senza di lui non sarebbero cambiate le cose? È questo che pensi?
M - No.
A - Come, No?
M - Intendo che il dottor Freud è sicuramente fondamentale, ma i germi di un cambiamento c’erano già e si vedevano in giro. Un certo “cambio di visione” sarebbe accaduto comunque, e non fosse stato Freud a mettere nero su bianco i suoi studi e le sue teorie, prima o poi un altro medico lo avrebbe fatto; così come se non ci fosse stato Stanislavskji, prima o poi un altro teatrante avrebbe scritto un libro sul metodo.
A - Capisco. Ma ancora non hai risposto alla mia domanda: la poesia si dice o si recita.
M - La poesia si dice perché può solo essere detta, e si recita perché un attore può solo recitare.
A - Un pezzo alla volta per favore.
M - Certo
A - Parte prima: la poesia si dice...
M - ...perché può solo essere detta.
A - Cioè?
M - Quando reciti porti al pubblico un personaggio, lo mostri, lo rappresenti. Esso è filtro tra te e il pubblico, si frappone, per forza di cose, pure se uno crede nelle “immedesimazioni totali”. Non sei e non sarai mai tu, sarà sempre e comunque una rappresentazione, una sorta di velo che è davanti a te e davanti lo spettatore, e tra te e lo spettatore: non può essere diversamente. Il “recitare”, cioè il “citare la res”, cioè ancora il “portare in giudizio la cosa”, il “portarla in giudizio davanti a un terzo”, mette per forza di cose tra te e lo spettatore un filtro, o se vuoi uno specchio, uno specchio doppiamente riflettente; ed è lì, in quello specchio che i due, attore e spettatore, si incontrano, solo lì si toccano: nel personaggio. Il personaggio è al contempo punto di divisione e punto di incontro tra attore e spettatore. Qual è il personaggio di una poesia?
A - Dipende...
M - Da cosa?
A - Da quello che la poesia dice, dalla storia che racconta.
M - No, no, caro. Non ti sto chiedendo di cosa parla la poesia, ma chi è colui che “racconta il fatto”. Tante volte un personaggio racconta la storia di qualcun altro, ma il personaggio è lui, non quello di cui egli in quel momento racconta. Se Amleto racconta la morte del padre, il personaggio rappresentato è Amleto non il padre. E la cosa di primaria importanza che Amleto fa è comunque rappresentare se stesso, anche se sta raccontando la morte del padre. In quel racconto c’è lui, la sua vita e la sua emozione; se il racconto lo facesse un altro personaggio, vita ed emozioni sarebbero diverse.
A - Ah, sì, certo, chiaro.
M - Dunque: se prendiamo, per esempio, “Il sabato del villaggio” di Leopardi, la donzelletta non è il personaggio da interpretare.
A - Sì, sì, ho capito. E dunque il personaggio è il poeta, perché è lui che parla.
M - Eh! Questa è una accettabile definizione, semplice ed efficace: “Chi è il personaggio? Il poeta”.
A - Bene.
M - Ma il poeta è un personaggio?
A - ...?
M - Un personaggio è l’invenzione di un autore, il frutto della sua immaginazione. È inserito all’interno di una struttura, di un racconto, egli è parte e funzione di quel racconto; ha relazioni con gli altri personaggi anche quando siamo di fronte a un monologo; ha una sua vita, sia pure immaginaria, passata e presente, e forse anche futura. All’interno della struttura possiamo ricostruire per lui un carattere, una tipologia, e pure una sorta di psiche... Puoi dire le stesse cose del poeta?
A - Evidentemente no. Il poeta è una persona in carne ed ossa, che ha pensato e scritto i suoi pensieri, che ha sofferto e ha gioito davvero nella vita, in una vita reale e non della finzione.
M - E dunque, qual è il personaggio nella poesia?
A - Credo che a questo punto possiamo dire: il poeta stesso e nessuno nel nedesimo tempo.
M - Questa mi piace ancora di più. Dunque, tu, come attore, di cosa puoi farti carico, di cosa vuoi e puoi “riempire te stesso” per restituire al pubblico la poesia? Dimmi prima di tutto una cosa: la poesia nasce scritta?
A - In che senso?
M - All’origine dei tempi, la poesia si scriveva?
A - Penso di no. La poesia era un’arte orale. Omero la cantava, lo sappiamo, si accompagnava con la lira e la cantava.
M - Esattamente. Quindi possiamo affermare che alla base della poesia c’è il canto?
A - Direi proprio di sì.
M - Bene, tieni da parte un attimo questo discorso e torniamo alla domanda di prima: se il tuo “personaggio” è il poeta, che al contempo non è un personaggio, di cosa ti fai carico per restituire al pubblico la poesia?
A - Io direi... del pensiero del poeta, del suo animo insomma. Cioè... io penso che in qualche modo “devo” essere il poeta.
M - La situazione si complica.
A - Beh, certo, visto che il poeta non è un personaggio.   
M - E allora, quale spiegazione riesci a darmi. Dai, ché ce la puoi fare.
A - Direi che in qualche modo devo farmi carico del pensiero del poeta, in qualche modo io devo, e direi voglio, essere il pensiero del poeta. Se mi spingo all’estremo posso dire che io sono il poeta.
M - Sì, benissimo. Forse dire “io sono il poeta” è un po’ troppo, ma hai colto perfettamente il concetto, e con esso il problema. Da qui la domanda successiva: se il poeta non è un personaggio, come puoi pensare di “rappresentarlo”?
A - ... già, non posso. È un bell’impiccio. A pensarci bene, mi pare che si cammini su una linea molto sottile, e cadere da una parte o dall’altra è molto facile.
M – Sicuramente. Vediamo però a questo punto di tirare delle conclusioni: tu non sei il poeta, non puoi rappresentare il poeta, ma d’altra parte devi in qualche modo “impersonificare” il poeta, che però non puoi trattare come un personaggio... e allora, quale presumi possa essere l’unica cosa che ti resta da fare, la sola cosa di cui puoi farti carico?
A – A questo punto confesso di essere andato in confusione... francamente non lo so.
M – Scusa, stringi il cerchio e stai all’azione, pratica, diretta, semplice: tu, cosa devi fare?
A – Oddio, in che senso.
M – Stando alla domanda da cui siamo partiti, “una poesia di recita o si dice”, alla fin fine, qual è la semplice azione che devi fare? Tutto questo discorso perché tu devi fare che cosa?
A – Beh... devo leggere una poesia...
M – Benissimo! E allora, alla fin fine, togli il personaggio, togli il poeta, togli il testo, togli le psicologie, togli... togli tutto. Chi è rimasto?
A - ... la poesia.
M – Da sola? La poesia... e poi?
A - ... non so...
M – Calmo, stai andando in confusione, ma è più semplice di quel che pensi. Ti aiuto, perché quando si va in confusione sulle cose semplici, poi diventano le peggiori da sbrogliare; dunque siete in due: la poesia, come hai giustamente detto, e...
A - ...?
M – Tesoro mio bello – adesso mi arrabbio – chi la deve dire ‘sta poesia?
A – Io...
M – Oh! E quindi?
A – La poesia e io.
M – Ah! Vivaddio! Vedi che era più semplice di quanto immaginassi? Quindi, se ci sei solo tu e la poesia, tutto quello che ti resta da fare è assumerti “il carico” di quella poesia, è “fare tua quella poesia”, è fare in modo che il senso di quel componimento entri in te e faccia parte di te e tu di lei...
A – Per sempre? Anche se non ne condivido il pensiero?
M – Ma NO! Adesso non farmi imbestialire. Quando fai un personaggio in una commedia devi essere per forza d’accordo con lui? Devi per forza essere lui? Se interpreti il mostro di Londra ti convinci che faceva bene ad ammazzare quelle ragazze? E se pure te ne dovessi convincere – cosa che mi porterebbe a prenderti a schiaffi – manterrai questo convincimento per tutta la vita?
A – Ma certo che no. Non me ne convinco e non me lo porto dentro per la vita.
M – E allora?! Idem con la poesia. Ne comprendi il senso e lo restituisci, proprio come fai con un personaggio. Poi saranno cavoli dell’autore se scrive cose da deficiente! Tu devi fare il tuo solito lavoro di scomposizione e ricomposizione del testo, e poi restituisci il senso che hai acquisito, diventi il primario elemento di restituzione del testo, senza mediazioni, senza un personaggio a fare velo tra te e il pubblico!
A – Tutto chiaro...
M – Speriamo.
A – Ma il problema resta: la poesia la dico o la recito?
M – Dire una cosa è recitarla? No. Ed essendo tu un attore (o almeno aspirando ad esserlo), se ti metti in piedi davanti a un pubblico per leggere una poesia o per dirla a memoria, quali tecniche userai? Userai toni, ritmi, scansioni, dizione, articolazione, fonazione, controllo, intelligenza... insomma, criteri, moduli, tecniche da attore o no?
A – Assolutamente sì!
M – Userai quella tipica chiusa cadenzata, con la pausina prima della frase finale per fare capire che è finita e che può partire l’appauso (si spera!), o no?
A – Assolutamente sì!
M – E allora, lo vedi: tu dici la poesia, in quanto in un certo senso sei tu che la dici, ma la reciti perché usi tecniche da attore, e dunque non puoi che recitarla. Al contrario sarebbe una lettura inesistente, piatta, amorfa, come una sequela di parole in tutto simili a come sono scritte sulla carta, senza vita, senza un senso - che poi sarà il tuo e non quello di un altro ma questa è altra storia - e solo in quel modo avrai restituito al pubblico la tua interpretazione del testo. Le parole sono tutto e niente, non puoi che interpretarle, e nel momento stesso in cui le interpreti, nel momento stesso in cui sei tu a scegliere il senso da dare loro, le stai recitando, le stai, cioè, ponendo sotto il giudizio terzo di cui si diceva all’inizio, quello del res-citare, del portare in giudizio davanti a un terzo. Non può essere diversamente. La verità, secondo me, è che la poesia si recita, ma la reciti per il semplice motivo che se sei un attore non puoi in alcun modo negare te stesso.
A – E se uno non è un attore? Se è un poeta? Perché ci sono tanti poeti che leggono le loro poesie in pubblico.
M – Certo che ci sono. Ma ascoltali e osservali bene: è in quel momento che sono loro a prendere da te, attore, le tue tecniche espressive. Cercano magari di imitarle, rientrando, lo vogliano o no, nel campo della recitazione, cioè della restituzione interpretativa ad un pubblico.
A – Ho capito, e mi pare chiaro. Solo un’ultima cosa: se io “porto in giudizio davanti a un terzo”, e siamo io e il pubblico, siamo in due: chi è il terzo?
M – Ti rispondo subito: il terzo siete tu e il pubblico insieme. Un tutt’uno, che nel momento in cui si compie il rito laico del teatro, attivate, comunitariamente, la riflessione sull’oggetto della rappresentazione. Ecco perché il teatro era così importante nella polis, tra i greci, perché in quel momento, attori e spettatori divenivano il consesso civile, unico, che rifletteva su se stesso: divisi nello spazio e dallo spazio scenico, uniti nella meditazione rituale. La cavea semicircolare, sembra quasi, simbolicamente, indicarci che quel cerchio non si chiude, che ingloba tutto lo spazio del teatro, continuando ed abbracciando il palcoscenico per mettere tutti insieme, tutta la città in una sola azione di... riflessione sul senso della vita e dell’uomo. Hai capito?
A – Credo proprio di sì.
M – Speriamo... 

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