giovedì 2 luglio 2015

Anticapitalismo: rifiutare la competitività.

Qualche giorno di troppo è trascorso dal mio ultimo articolo. Le cose da fare sono moltissime, il lavoro assorbe tutto il tempo e poco resta per i miei sei affezionati lettori. 
Ho detto sei? Chiedo scusa, ricalcolo... sono quattro! Tenaci, testardi e encomiabili per la pazienza. E fossero pure due, sarebbe un successo lo stesso. 
Già, perché di questi tempi quel che conta non è più, purtroppo, il numero (che pure ha un suo senso), ma la possibilità di portare almeno una sola persona ad uscire dagli schemi di pensiero che una certa forza economica e affaristica cerca di imporci, di inocularci nel cervello come l'unico pensiero possibile. 
Un esempio banale? Prendete la moda: negli ultimi decenni, con una violenta accelerata negli ultimi anni, gli stilisti non tendono più a "importi" un modo di vestire, ma una tipologia di fisico. Sei tu che devi entrare in quei pantaloni, non loro che devono fasciarti. E se non sei così, in quello specifico modo, e non puoi indossare l'ultimo taglio, sei fuori, out, sei da deprecare, disprezzare, evitare, commiserare. 
Allo stesso modo, se non pensi come la massa pensa (o crede di pensare) sei da deprecare, disprezzare, evitare, commiserare... e spesso susciti pure una certa pietà. 
Alla luce di tutto ciò, esporre un pensiero che sia il proprio, per quanto farlocco, bislacco, e anche sbagliato, è, dal mio punto di vista un merito. Pure se è un pensiero del piffero! Ma è mio! 
E anche il riuscire a far vedere il mondo ad una sola persona da una angolazione diversa, è già un merito. Ecco perché il numero, purtroppo, conta poco. Dico purtroppo perché sarebbe interessante potersi confrontare con tante e tante persona, sarebbe una vera ricchezza. Il Sistema non vuole, e troppi, quasi tutti, supinamente si dispongono. 
Osservo talvolta i giovani, e profondamente mi preoccupo: noi, un tempo, un tempo ahimè lontano, facevamo di tutto per non essere omologati, per distinguerci, differenziarci, per cercare un modo di affermare la nostra singolarità, unicità, che in qualche modo diveniva "bellezza della unicità". Sbagliavamo? Tante volte. Nelle cose fatte o da fare, ma non credo nell'umanissimo intento. 
Oggi, invece, il giovane VUOLE essere omologato, vuole far parte del branco, vuole assolutamente non sentirsi escluso. Ed escluso lo diventa se non ha il jeans alla moda, il telefonino alla moda, se non ascolta musica alla moda, se non parla con idiomi alla moda, ecc. ecc. ecc. 
Nel contempo si propagandano i miti, falsi!, della meritocrazia e della competitività. Per attuare i quali, è necessario far leva sulle propria competenze, naturali e acquisite. Da qui una violenta schizzofrenia e frustrazione si scatenano: come posso essere parte del branco e al contempo essere un unico inconfondibile e riconoscibile? 
Da questo contrasto cercato, cercato dal Sistema, credo nascano tanti dei malesseri della nostra società e dei tanti giovani che la compongono. E non solo dei giovani. 
A questo punto della riflessione, il mio unico lettore, si aspetta una risposta. 
Beh, non la voglio dare, anche se qualche pensiero ce lo avrei... 
Che ognuno provi a elaborare la propria. 
Posso solo dirti, caro lettore, che se competitività e meritocrazia sono parte di questo distruttivo Sistema capitalistico, io, come anti-sistema e anti-capitalista, non voglio essere né competitivo, né riconosciuto meritocraticamente. 
Rifiuto la competizione con i miei simili, che poi vuole anche dire lavorare con altri, insieme con altri marcando delle differenze e delle graduatorie. Un sorriso, questo è quel che mi piace, per condurre il lavoro in porto insieme. Sempre. Ognuno farà il suo rispetto alle capacità e possibilità che ha e sarà sempre ben accetto se la sua voglia di esserci sarà sincera. 



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