venerdì 24 gennaio 2020

RIGOLETTO, DIONISO, RINASCITA, RIVOLUZIONE!


“Il verso esige la declamazione (…)
il verso ricorda sempre di essere stato un’arte orale prima che scritta,
il verso ricorda sempre di essere stato un canto”.
J. L. Borges

“Molte sono le forme degli esseri divini,
molte cose inaspettate fanno gli dei”
Euripide


“Il sogetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche”[1]. Poteva musicare tanti altri soggetti, Verdi, pare invece letteralmente eccitarsi per questo Triboulet. Crediamo sia doveroso e coscienzioso chiedersi ancora una volta: perché?
         È noto il valore rivoluzionario di “Rigoletto”, ed è evidente che per una profonda comprensione delle “ragioni verdiane” non si può prescindere dal testo di Hugo (di cui il libretto di Piave è ottima sintesi). Inutile, in questa sede, ripercorrere la storia di tutte le difficoltà di rappresentazione incontrate sia da Hugo che da Verdi; ma al di là dei moralismi dell’epoca, cosa c’era in questa trama da crearle così tanti impedimenti? Davvero bastano un sovrano libertino, un personaggio deforme, amori “amorali”, intrighi, sicari, un sacco, ecc. per creare tanto scompiglio? La storia del teatro è piena di libertini anche mitizzati, di deformi illustri anche re, di appassionanti passioni travolgenti… Dunque, bisogna andare oltre, oltre una lettura storicistica, oltre le evidenze, e dirigersi, come scrive Neumann, “all’ambito di una psicologia del profondo applicata alla cultura e ad una terapia della cultura”[2], entrare, cioè, nella sfera di quell’inconscio personale e collettivo perennemente animato da medesime lotte e medesime immagini, dirigersi verso la nostra occidentale “psicologia primaria”, verso il mito, ancora una volta verso l’antico teatro greco.

Tema del doppio, tema del travestimento, dell’illusione, della conoscenza, della follia e della follia amorosa, del sacrificio e dell’agnello sacrificale, vendetta, astuzia,  scontro tra dio e uomo, sostituzione… Sono qui votato alla sintesi (anche per la serenità dei miei dodici lettori, sic!), ma tutto questo porta inesorabilmente ai miti di Dioniso, e nello specifico alla grande tragedia di Euripide Le Baccanti. Chiariamo ulteriormente (ove ce ne fosse bisogno): non si tratta di un “ricalco” della trama, ma di una serie di immagini che alla trama stanno sottese, e che con imperscrutabile virulenza colpiscono e agiscono a livello subliminale, nell’inconscio, personale e collettivo.
Pochi e rapidi esempi: 1) Dioniso porta Penteo a spiare i riti delle Baccanti - il buffone porta la figlia a spiare le “abitudini” del sovrano; 2) Cadmo invita Penteo ad assecondare i riti del dio (“pronunciala la bella menzogna”[3]) - il buffone vive a corte in apparenti simbiotici intenti con il suo re; 3) il dio dona alle donne la follia (che è anche libertà sessuale e riappropriazione di una coscienza, “Impara ad apprezzare le tue forme divine”, dice il re a Maguelonne) - Bianca afferma: “A volte s’incontra un uomo che ci salva la vita o uno sposo che donandoci le sue ricchezze, ci fa invidiare da tutti. Ma questi non sono mai gli uomini di cui ci si innamora. È vero, lui mi ha fatto solo del male, eppure io lo amo e non so il perché.”; 4) Dioniso dice che Cadmo “ha reso inaccessibile questo suolo, questo santuario di sua figlia”, Sèmele, madre del dio, di cui entrambi, per differenti motivi, vogliono preservare l’onorabilità - Rigoletto tiene segregata la figlia; 5) Gilda, travestita, si offre quale agnello sacrificale - Penteo travestito è offerto al rito delle Baccanti; 6) il Duca passa dal libertinaggio sfrenato a intimi sentimenti amorosi - Dioniso è dio doppio, del cielo e degli inferi, del maschile e del femminile, perfettamente due nature convivono il lui; 7) …

Re, Duca, Bianca, Gilda, Triboulet, Rigoletto… i personaggi di sono confusi in questa mia necessariamente rapida esemplificazione, poiché Verdi e Hugo, uomini di un tempo comune, sono, nel profondo, vicinissimi. Si impuntò, Verdi, con la censura, per alcuni elementi: “Deve essere un sovrano assoluto; il sacco è un effetto che funzionerà; il buffone deve essere deforme…”, evidentemente sentendoli indispensabili; né accetterà di mettere la sua musica sotto differenti proposte di testo, perché alla fine di tutto il suo linguaggio non è quello delle parole (forse anche per questo insisterà con Piave per la sintesi), ma quello della musica. E nelle forme della musica si possono ritrovare gli stessi motivi di Hugo.
Attraverso differenti linguaggi i due artisti si pongono come spina nel fianco degli ordini costituiti, prospettano altre vie, propongono altre forme, perché così parla l’arte: principalmente per forme, meno per contenuti, e questo è evidente se si pensa che le storie che si raccontano sono, in fondo, bene o male sempre le stesse.
Il romanticismo è certamente una espressione del femminile, inteso in senso junghiano. “Tagliare la testa al re” è, simbolicamente, l’abbattimento del sistema maschilista-patriarcale. Alle rivoluzioni seguì la Restaurazione, ennesimo tentativo di soffocare gli aneliti di cambiamento e liberazione dagli assolutismi che poi si perpetueranno per buona parte dell’800. I grandi discorsi di Hugo in difesa delle donne, la violenta tirata di Triboulet contro i cortigiani pronti per il potere a far mercato delle proprie mogli, sono solo pochi dei tanti segnali che animano lo scrittore e tutta un’epoca. Il femminile è, tra le altre cose, la creatività, la fantasia, l’interiorità, l’immaginazione (bisognerà attendere il ’68, dopo due guerre mondiali, per risentire, proprio in Francia, un motto chiaro: “l’immaginazione al potere”). Il sistema maschile-patriarcale è tendente allo scontro, alla guerra, alla tirannia, e “Eros è sempre sospetto in un sistema tirannico” (Jan Kott). La liberazione, per essere attuata nel profondo, deve essere innanzi tutto liberazione sessuale. Se Verdi fu realmente quell’uomo del nostro romanticismo e del nostro Risorgimento che conosciamo, come poteva non fare propri questi aneliti trasportandoli nel proprio linguaggio? A ben riflettere su questo discorso del femminile, un sottile, robusto, preciso filo rosso lega Rigoletto a La Traviata
Su tutto ciò (ed anche su  altro) s'innesta il violento simbolo della maledizione: lanciata da un uomo, essa stacca nettamente il servo dal padrone. Rigoletto e il Duca vivono in una sorta di simbiosi orgiastica, è spesso il buffone a spingerlo “sulla via della perdizione” (o almeno questa è la sua illusione), ma la maledizione si pone come spartiacque tra le nature profonde dei due. Il sovrano assoluto, simbolicamente dio, non ne è minimamente toccato: cosa può l’invettiva di un uomo su di un dio? Per il buffone, invece, questa si trasforma in un’ossessione, in quella che in psicologia si definisce profezia che si autoavvera (praticamente “portarsi sfiga da soli”, sic!).

C’è sicuramente una punta di grottesco in ciò che diciamo, come ce n’è nel personaggio centrale dell’opera, in Rigoletto. Ma il grottesco è parte viva, integrante di tutto il teatro moderno, certamente da Shakespeare in poi, è quella qualità che Jan Kott definisce come “l’impossibilità di compiere la tragedia in un mondo tragico”[4]. E non deve meravigliare se Verdi vede proprio in questo personaggio grottesco, ambiguo, padre amoroso, servo crudele, uomo maltrattato dalla vita, gobbo, ciò che gli serve per scardinare gli schemi. E anche per il musicista, la novità espressiva passi proprio attraverso questo magmatico protagonista.
Sono state scritte centinaia di ottime pagine che illustrano la volontà del Maestro di Busseto. Non ripeteremo qui, noi, il discorso del volere un “Teatro in musica”, la voglia di “raccontare la vita”, la ricerca dei grigi, com’è stata definita. Magistralmente la descrive Gabriele Baldini[5]: “Mettersi nella situazione di Rigoletto e provare semplicemente a recitare le parole di Piave (…) la musica drammatica non era mai arrivata a tanta impudicizia nel rilevare l’espressione umana delle parole: anziché rivestite di musica, le parole apparvero come spogliate di essa (…) e apparvero in tutta la loro nudità”. Entra (o torna?) in gioco con Rigoletto proprio quel declamato, nato proprio negli antichi teatri greci, che accompagnerà Verdi fino alla fine, e riuscirà ad aprire alla musica operistica nuove, vigorose strade.
Ma anche qui credo si possa ancora “scavare”, in questa ricerca di rapporto con il mito, e quindi con il profondo, che propongo. Con le mie misere - davvero misere! - competenze musicali, provo a sgranare pochi, rapidi esempi: 1) il funesto presagio è già tutto nel preludio, con quel ritmo da marcia funebre, scandito su un secco do centrale che diviene leitmotiv della maledizione - Dioniso, nel prologo de Le Baccanti giunge già con volontà di vendetta: “È Tebe, la prima città di questa terra ellenica/ che io agito con le mie grida (…)”; 2) dal “Questa o quella” al corteggiamento della Contessa di Ceprano il cambio è totale, repentino, ma sempre su stessa tonalità - Dioniso, si è detto, è dio doppio, del cielo e degli inferi; 3) in Gilda la convenzionalità della prima aria va pian piano scomponendosi fino alla follia - Agave resa folle dal dio giunge fino all’omicidio del figlio; 4) il Duca si allontana, si perde nella notte: l’acuto che la consuetudine ha posto alla fine della “canzonaccia da taverna” è evidentemente erroneo, Verdi lo vuole quale ultima nota del sovrano, con una ricaduta sulla tonica che è chiusura del percorso - Dioniso, compiuta la vendetta e ottenuto il sacrificio rituale, riprende il suo cammino: “Poi rivolgerò il mio piede verso un’altra terra/ per rivelarmi ancora”[6]; 5) il coro del Rigoletto è “monosessuale”, come quello de Le Baccanti; 6)…
Un’ultima notazione: non c’è praticamente mai sole in questa trama, ma sopra tutto non c’è luna. Il sole è assente poiché al suo posto c’è il sovrano-dio intorno al quale tutto ruota. La luna è assente perché già morta, già predestinata, come Gilda, al sacrificio, e predestinata proprio da quel maschile (Rigoletto) che per paura di perdere potere, per paura di vedere mutato il suo ordine consolidato, e mascherandosi dietro una idea di protezione assoluta, la nasconde, segrega, tiranneggia, soffoca fino a costringerla alla fuga estrema e rovinosa. L’oscurità in cui è immersa tutta l’opera è l’oscurità del profondo, scena primaria della eterna lotta tra maschile e femminile.

Spero di avere reso, con queste mie poche righe, l'idea di una scelta, voluta ad ogni costo, l'idea di un'opera che è qualcosa di più per la storia del Teatro musicale di quanto forse tutti noi immaginiamo e di quanto fino ad oggi è stato immaginato: "attaccandosi" strenuamente a questa storia, Verdi sentì di sicuro che un sacrificio era necessario per la rigenerazione dell'Opera, per quella Rivoluzione nell'Opera ch'egli agognava sentendola fondamentale per la creazione del suo Teatro in musica.  
Nel momento in cui Rigoletto canta "Pari siamo", il dado è tratto, e l'Opera non è più l'Opera fino ad allora conosciuta, il concetto stesso di Aria è smontato, si entra in un mondo nuovo, si compie il Teatro in musica; ma perché la rinascita si adempia è necessario un sacrificio, è necessaria la vittima che accolga in sé, coscientemente, peso e senso di quel sacrificio. Gilda va alla morte consapevolmente.

Baccanti è certamente la più complessa, e misteriosa, delle tragedie giunte fino a noi; Le roi s'amuse di Hugo è anch'esso una possente scarica data nel profondo; Verdi accoglie tutto ciò che da questi precedenti gli deriva, lo fa proprio e lo rimanda sulla scena, compiutamente. 
Si consideri solo un curioso elemento: nella tenuta di Sant'Agata non sono presenti volumi contenenti tragedie greche; la potenza del Mito scavalca la conoscenza.

Scritto a Roma nel 2010, prima di iniziare l'avventura di "Rigoletto a Mantova"
Decisomi a pubblicare solo oggi, Salerno 2019



[1] Lettera di Verdi a Piave del 28 aprile 1850
[2] Erich Neumann, La psicologia del femminile, Astrolabio-Ubaldini Editore, 1975
[3] Le citazioni da Le Baccanti sono tratte dalla traduzione di Eduardo Sanguineti, SE, 2003
[4] Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, Feltrinelli, 1964
[5] il sempre splendido Abitare la battaglia, Garzanti, 1983

1 commento:

dite pure quel che volete, siete solo pregati di evitare commenti inutili e volgarità.