lunedì 12 febbraio 2018

FAVINO, IL PROGRESSISMO DEL CONSERVATORE


Ma cosa c’era di così stupefacente nel pezzo che Pier Francesco Favino ha recitato a Sanremo?
È sintomatico che nemmeno i suoi colleghi se ne siano accorti, il che ci dice a che livello è scesa la professione, poiché l’abitudine all’orrore è divenuta quotidiana frequentazione.
Eppure proprio voi, cari colleghi, dovreste lasciare agli inesperti le considerazioni sul contenuto, dovreste lasciarle ai giornalisti superficiali, ai politici e ai legulei, dovreste lasciarle a coloro che non sanno che Favino poteva fare un monologo sull’emigrazione o sulla lavastoviglie, l’effetto che avrebbe ottenuto sarebbe stato lo stesso.
Perché la vera forza del pezzo di Favino è LA FORMA, il fatto di avere mostrato come la recitazione sia un’arte che ponendo in campo i suoi strumenti, agendo sul palco secondo i propri dettami tecnici crei meraviglia. È fatta apposta, ma in troppi lo hanno dimenticato.
Lo hanno dimenticato perché quello da cui quotidianamente veniamo bombardati (ormai da decenni) è l’insipienza tecnica e artistica di pseudo attori spacciati per validi interpreti da un sistema mediatico che o vuole venderci un prodotto o vuole venderci una ideologia; bombardati dal doppiaggio che non può essere e non sarà mai una espressione recitativa pura, per due motivi: non c’è il corpo, è mimesi di altra recitazione; lo hanno dimenticato, i miei colleghi, perché ci ritroviamo mille volte su cento a confronto con registi che non sanno più cosa sia la recitazione e ti chiedono di fare cose che sono contrarie alla natura stessa dell’arte recitativa, e tu, per potere sopravvivere, sei costretto ad assecondarli; perché ci siamo abituati ad attori che biascicano e non si capisce che cazzo dicano, perché conviviamo con gente che in teatro usa il microfono dato che non conosce i fondamentali della voce, per non parlare dell’uso del corpo; lo abbiamo dimenticato perché anche noi, per sopravvivere, siamo costretti o a convivere con degli amatoriali o a osannarne alcuni facendoli passare per attori professionisti…
Quello che di Favino ha sconvolto non è la storiella del migrante, ché se ne potevano raccontare cento e centro diverse, più o meno intense. Io, quando l’ho ascoltato (su YT!) ho anche pensato che Pier Francesco pareva fare l’imitazione di Fernandel. 
Quello che vi ha sconvolto è di rivedere, da un attore, che viene dall’Accademia, dal teatro e al teatro torna quando vuole e può, è di rivedere l’arte della recitazione, di rivedere l’arte della recitazione ITALIANA, con i suoi stilemi, le sue pause, i suoi respiri, la sua espressività, la sua credibilità, il suo pensiero che si dipana nell’attore, nel suo corpo, nella sua voce.
Improvvisamente ci siamo ritrovati a fare un salto indietro nel tempo, un salto di almeno 50 anni, nelle puntate televisive di Maigret o in uno sceneggiato di Majano, quando era la norma ascoltare la recitazione italiana. Abbiamo improvvisamente rivisto noi stessi per quel che siamo e che abbiamo perso o almeno stiamo perdendo in nome di una globalizzazione culturale e dunque anche recitativa.
La recitazione è sempre un atto politico, Favino non so quanto fosse convinto di esprimere una idea progressista, di sicuro ha avuto una espressione fortemente rivoluzionaria: aver rimesso in gioco l’attore e la recitazione italiana, aver guardato al futuro nel solo modo che può darci una speranza, l’essere fortemente conservatori.
Ancora una volta è parso evidente che il progresso è tornare all'antico.   

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