lunedì 5 febbraio 2018

ATTORE PROFESSIONISTA E ATTORE DILETTANTE (le differenze fondamentali)

Quand'ero un giovane attore, alle prime armi, la mia amata e mai dimenticata Isabella Guidotti mi insegnava: "meglio l'ultimo dei primi che il primo degli ultimi". 

Non era nemmeno mio particolare interesse, ma ho dovuto seriamente interrogarmi su quali fossero, nella mia professione, le fondamentali differenze tra un professionista e un dilettante (o amatoriale, termine che gli dà una punta di dignità in più, ma non cambia la sostanza). 
In un'epoca in cui chiunque, poi, si sente in diritto di salire su un palcoscenico o mandare alle stampe i propri pensieri, il cercare di fissare dei termini, dei paletti, delle regole, il cercare di riflettere su parametri che possano in qualche modo definire con chiarezza, diviene ancor più importante anche se più complicato. 

Una prima cosa ve la voglio dire: tutti i cosiddetti "talent" che invadono la tv, andrebbero chiusi e/o vietati, ma soprattutto coloro che vi fanno da giudici andrebbero radiati dagli albi professionali (se vi fossero). Non perché non sia diritto delle persone esibirsi, ma perché dei professionisti che avallano con la loro presenza le performance di autodidatti, non fanno che gettare discredito sulla professione e instillare la certezza che "chiunque lo possa fare". 
Il meccanismo, a mio immodesto parere, vale tanto per i talent artistici, che per quelli di cucina. Cosa ce ne frega della cucina? Nulla, se non fosse per il fatto che ci interessano i meccanismi! 
Indecente che uno che sa fare una capriola (poiché di questo spesso si tratta, di una qualità da circo Barnum) possa essere considerato alla stregua di un vero circense che si è fatto il culo per decenni, così come indecente è che uno che mette in ordine quattro spaghetti nel piatto possa essere considerato alla pari del compianto Gualtiero Marchesi; e la colpa del riverberarsi di questo meccanismo perverso non è di chi si propone, ma di chi, a fronte di una paccata di denaro, si mette a fare il giudice. 
Dal mio punto di vista, questi fenomeni si combattono in un solo modo: cambiando canale. Ricordate sempre che se l'audience crolla, la pubblicità non viene più venduta e quel programma, se non vende pubblicità, sparisce. 
Questo, cari colleghi professionisti che vi divertite a guardare Xfactor o MasterChef pensando di assistere ancora a "La corrida" di Corrado, se vi interessa proteggere la vostra professionalità, se vi interessa unire un paio di puntini tra cose che vi sembrano lontane dal vostro quotidiano e invece lo influenzano profondamente, altrimenti fate come ve pare. 
Mi piacerebbe però che la smettesse di blaterare contro... i cachet elargiti a Sanremo se poi ogni anno state lì a guardare la kermesse. "Ma se non vedo come faccio a criticare?... Ma è solo per vedere che cavolo fanno... Voglio proprio capire come li spendono tutti quei soldi..."
Ragazzi cari, tutte queste sono emerite stronzate. Se sei un professionista lo sai benissimo cosa faranno quelli su quel palco, non hai nessun bisogno di "verificare", non ci sarà alcuna sorpresa. Quindi, cambia canale, ché ormai ce ne sono mille e non dirmi che non trovi un'altra cosa interessante da vedere. 

L'inconfessabile verità è che tu guardi Sanremo perché vorresti essere a Sanremo, guardi la D'Urso perché vorresti essere sulla poltrona di fronte a lei, perché i 'ntomila leuri dati alla Littizzetto di turno, li vorresti tu. 
E allora, che male c'è? Confessalo, non fare il finto indignato, confessalo e basta e noi ti apprezzeremo, io, almeno, ti apprezzerò. 

Detto ciò, quali sono le fondamentali differenze tra un professionista e un dilettante?
Mi direte: il fatto che uno vive fondamentalmente con i proventi di quel lavoro e l'altro no
Verissimo, ma questa sostanziale distinzione, che disegna la questione dal punto di vista pratico, implica delle diversificazioni che sono ancor più impalpabili, profonde e determinanti. Io ne identifico due che scherzosamente definisco: "la tensione di sopravvivenza" e "la tensione da precisione". 

La tensione da sopravvivenza è determinata proprio da quella semplice considerazione che anche voi avete fatto: il professionista vive solo dei guadagni che gli vengono da quel lavoro, il dilettante no. Pare nulla, ma questo cambia completamente la vostra tensione mentale, poiché ogni volta (e ribadisco "ogni volta") che salite sul palco sapete, spesso inconsciamente, che vi state giocando la pagnotta, vi state giocando un pezzo della vostra vita, non soltanto dal punto di vista pratico (bollette, affitto... prossima scrittura), ma anche psicologico: per esempio, la considerazione dei colleghi, nonché l'autostima. Ovvio che per il dilettante così non è, per il semplicissimo motivo che egli non vive dei guadagni che gli derivano dal recitare; la sua sopravvivenza dipende da altro introito, dallo stipendio che percepisce come bancario, o dalle parcelle che emette come avvocato. 
Non mi pare dunque complicato comprendere che la tensione psico-fisica del professionista sarà sempre diversa poiché agisce senza "reti di protezione". Ogni volta egli si gioca tutto! 
Una diversa tensione psico-fisica fa, per forza di cose, diversa l'espressione artistica. Dubbi, su questo, non ce ne sono. Come non ce ne sono sul fatto che la performance potrà non piacerti ma sarà sempre di qualità superiore a quella del dilettante perché costruita con strumenti che derivano da una competenza ricercata e voluta con il lavoro quotidiano e nel lavoro quotidiano, totale e totalizzante, e non con i ritagli di tempo.
Il medico potrà anche sbagliare una diagnosi, ma le sue competenze, rispetto a te che tutti i giorni leggi l'enciclopedia medica, non possono essere messe in discussione.    


Sulla base di quanto detto, non ci possono nemmeno essere dubbi sul fatto che l'espressione artistica di un professionista - sempre indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o no - è perpetuamente tesa verso la ricerca della precisione
Questa, a mio vedere, è in realtà la differenza fondamentale, quella che segna compiutamente il guado tra professionismo e dilettantismo.  

Chiariamo un momento un punto: come tutti i lavori che si basano su una forte componente di artigianato, il lavoro dell'attore e del teatrante in genere, non ha bisogno della formazione teorica, né prima di affrontare il lavoro né dopo. Ogni teorizzazione è frutto di personali riflessioni che restano esterne al "gesto perfomativo", che non lo influenzano in alcun modo. Si può, insomma, recitare benissimo, sapere sempre quel che si sta facendo, senza avere mai alcun bisogno di spiegarlo, a se stessi e agli altri. Ecco perché succede che io scriva: "lo sa - o non lo sa - sia pure inconsciamente - o inconsapevolmente".   

Ebbene, in questo lavoro, fatto di consapevole incoscienza e/o inconsapevole coscienza, c'è una sorta di condizione "naturale", quella dell'essere sempre tesi alla ricerca della "recita perfetta". Un po' come Faust cerchiamo l'attimo da fermare, cerchiamo quella perfomance recitativa che ci catapulti in un'altra dimensione, una dimensione sganciata dallo scorrere del nostro tempo, una dimensione che ci rapisca e ci sospenda in un "perfetto presente" avulso dalla nostra miseria, dalla nostra quotidianità, dalla nostra caducità. Combattiamo una disperata battaglia contro il Tempo, una battaglia che sappiamo persa in partenza ma che non possiamo fare a meno di combattere. La precisione è la più forte delle armi a nostra disposizione, la cerchiamo pur sapendo che non potremo mai raggiungerla.
Attenzione: "precisione" non significa "orologio svizzero", meccanica senza scarti. Perché sappiamo benissimo che gli errori, le disattenzioni, sono parte dell'esistenza, parte della vita di un uomo, e una "esecuzione precisa" non può escludere una parte di "improbabile". Cos'è, allora, "preciso"?

Io credo che "preciso" sia un flusso del pensiero, nel quale andare a incanalarsi per esserne alla fine fine trascinati. Per far questo abbiamo bisogno del "mestiere", ne abbiamo un disperato bisogno come un chirurgo ha bisogno dell'anatomia per sapere dove fare il taglio giusto. 
Abbiamo bisogno del mestiere che ci insegna il modo di usare il corpo, la voce, la ragione, la gerarchia, il rapporto con l'altro, in scena e fuori, la conduzione di se stessi, la quotidianità della disciplina, il valore della cultura e quello dell'esperienza... ne abbiamo bisogno per tentare di condizionare questo nostro incanalarci: usiamo il controllo per cercare di perdere il controllo.  
Ma perché un dilettante non può anch'egli far questo, mi si chiederà?
Per il motivo detto in precedenza: la mancanza di dedizione totale, l'arte fatta a "ritagli di tempo", la "pittura della domenica", la non necessità

Il professionismo ha bisogno della necessità, in tutte le sue declinazioni. 


Il mattone fondamentale per essere un professionista è la totale conoscenza del mestiere.
Il mestiere è artigianato. 
L'artigianato si apprende solo a bottega, cioè da uno più grande di te che te lo insegna.
L'autodidatta non sarà mai un vero professionista.  

Per questo motivo le leggi che prevedono che i giovani possano fare da soli senza avere adeguatamente appreso il mestiere da quelli più vecchi di loro, sono contro la natura stessa della professione attoriale. La non conoscenza, da parte dei giovani, di coloro che li hanno preceduti, è offensiva per la loro stessa professione. Il tentativo tutto politico di tagliare le radici con il passato e tutto il suo portato culturale, solleticando un giovanilismo d'accatto e proponendo ai vertici del nostro Teatro attori che, come si evince dai loro CV, non sono mai stati a bottega, è infamante per un Teatro che ha insegnato al mondo l'arte della recitazione: il nostro, il teatro italiano. 
Per questo e per molti altri motivi saremo qui, per quanto piccoli, a non consentire che il nostro mestiere, e quindi la nostra professionalità, sia liquefatta nel mare magno della globalizzazione culturale. Il Teatro, e dunque l'Attore, per crescere ha perennemente bisogno di interscambio culturale. L'omologazione può solo essergli nemica poiché sopprime questo interscambio. Il Teatro ha bisogno di confini, nazionali quando non addirittura regionali. Solo così potrà seguire a pieno la sua vocazione che è quella di uscire dai propri confini per portare la propria particolarità, la propria unicità.  

La fondamentale differenza tra un professionista e un dilettante è la ricerca della precisione. Vi fareste mai operare da un chirurgo che non tagli precisamente? 
Io no.  

2 commenti:

  1. Sono un'attrice "amatoriale", Da cinquant'anni recito in una compagnia che ha partecipato anche a rassegne teatrali miste ( amatori e professionisti) conseguendo spesso degli ottimi risultati. Ho frequentato diversi corsi e laboratori teatrali ( il più importante, nel 1974 con il regista Jerzy Grotowski, alla Biennale di Venezia). Ho sempre dedicato molto tempo allo studio per il raggiungimento di una sorta di perfezione e ho potuto farlo con la mente libera dalla preoccupazione di dover per forza guadagnare, dal momento che comunque vivo del mio lavoro di fotografo.
    Dal basso della mia modestissima esperienza, posso affermare che la differenza tra un professionista e un amatore consiste semplicemente nella professionalità.
    Esistono "amatori" molto professionali e "professionisti" molto scadenti, che si fregiano di questo titolo semplicemente perché sono iscritti ai lavoratori dello spettacolo.
    La formula vincente è: PASSIONE E PROFESSIONALITA' , a prescindere...

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  2. Non è proprio così. Ho studiato per 5 lunghi anni, con insegnanti laureati nelle migliori scuole italiane. Poi ho lavorato con vari registi. Ora ho un piccolo teatro e una mia compagnia. Ma non vivo di teatro...e allora?

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