Ci ho messo più di trent’anni per capirlo, ma finalmente credo di esserci arrivato: perché non riesco a relazionarmi con Shakespeare, con uno dei quattro, cinque più grandi autori teatrali di sempre, esclusi i tre sommi tragici greci?
Quando ero ragazzo, avrò
avuto quattordici o quindici anni, non di più, la Rai trasmetteva su una
neonata Rai3 un ciclo di opere del Bardo realizzate dalla BBC, ovviamente
doppiate in italiano. In perfetto sicrono, la radio mandava l’audio originale
inglese. Una operazione intelligente che anticipava le svariate funzioni che
oggi possiamo avere con un dvd.
Seguire quelle messe in
scena era davvero facile, bastava conoscere la trama, poi abbassavi il volume
del televisore e alzavi quello della radio. Così facevo, e godevo, mi ricordo
che davvero godevo.
“Giunto in Arte”, il
rapporto con Shakespeare si è mortalmente complicato per me: non riuscivo e
ancora non riesco a relazionarmi emotivamente con la sua scrittura che trovo
ampollosa, prolissa, spesso al limite della noia. I miei favori vanno
decisamente ad altri autori, a Cechov per esempio, ma sopra tutto a Pirandello
e Goldoni. Perfino il romantico Alfieri si incastra meglio con il mio animo.
Quando mi parlano del
Guglielmo, sono solito dire: “Rispetto e riconosco il genio, ma non mi piace”,
stessa cosa mi accade con il Mozart operistico.
Potevo fermarmi qui, a
questa semplice e lecita constatazione. Ma non sarei quel che sono se non mi
fossi perpetuamente sotto sotto chiesto come mai.
Ebbene, credo di avere
trovato la risposta.
Sfogliavo ieri il “Sogno
di una notte di mezza estate”, opera a mio vedere noiosissima! Nulla mi
interessa di fate e elfi e incantesimi e sotterfugi e magie... Tra le parti
tradotte in prosa, mi compaiono sotto gli occhi delle parti in versi. Le leggo,
e mi torna alla mente un passaggio dei Saggi danteschi di Borges: “Milton è stato paragonato a Dante, ma Milton non
ha che una sola musica: è ciò che in inglese si chiama “uno stile sublime”.
Quella musica è sempre la stessa al di là delle emozioni dei personaggi. In
Dante invece, come in Shakespeare, la musica segue le emozioni. L’intonazione e
l’accentazione sono ciò che conta di più”.
Ecco,
mi sono detto, il problema è qui. Oggi, come allora, da ragazzo, ascoltare in
originale mi affascina, la traduzione mi annoia mortalmente. Perché? Perché è
evidente che prima ancora di essere Teatro, Shakespeare è Poesia, e io – non so
voi – la poesia tradotta non riesco a leggerla, mi pare sempre di percorrere
una strada sconnessa, dove in più punti l’asfalto ha ceduto e devi stare
attento a dove metti i piedi invece di camminare senza pensieri, lasciando che
il passo vada fluido e leggero. Tu e la strada non riuscite mai a essere uno.
Non
conosco l’inglese - se non quelle quattro parole che tutti oggi siamo quasi
costretti a masticare - ma l’ascolto dell’originale forse mi fa pienamente
percepire che lì c’è una musica, musica che in italiano perde la propria
intonazione, la propria accentazione, per quanto il traduttore possa essere
bravo. Tradurre poesia vuol dire consentire a un’automobile di camminare, ma
dopo averle dovuto togliere un pistone. E dunque può accadere che un senso di
noia ti pervada perché senti chiaramente che sempre un passaggio manca al
raggiungimento della pienezza.
Le
tragedie o le commedie di Shakespeare che riesco a vedere e amare in teatro
sono sempre state quelle che avevano un grande attore a muovere il gioco,
perché il fascino derivava dall’arte di lui, prima ancora che dal testo. Ma
quando lo leggo, il Bardo mi resta lontano, come una meraviglioso dipinto, che
un velo posto davanti, o una faro mal piazzato, o un gruppo di turisti idioti
quanto la loro guida ti impedisce di cogliere nella sua goduriosa pienezza.
È
Poesia, e la poesia non si può tradurre. Non trovo altra spiegazione.
Ha centrato in pieno il problema. Come critico, interprete e attore (disumano è il compito di mantenere affiancate queste nature senza che si sfiorino, pena il disastro, come si farebbe per idrogeno, ossigeno e una fiamma) confermo che è nell'alternanza prosa/poesia che si gioca tutta la partitura drammaturgica del Bardo. Lì sono depositate le correnti dinamiche e le indicazioni di regia che consentono di apprezzarlo, eseguirlo e riproporlo in modi sempre originali ma incredibilmente fedeli. Quanto dico vale se lo si recita in lingua originale, cosa che faccio da anni. Per le traduzioni purtroppo si impone un filtro che distrugge almeno il 60% dell'impianto dell'opera, del colore e delle modalità espressive. Poi dovremmo anche tener conto dell'obiettiva osticità di alcune opere, più lontane dal nostro sentire comune, come certi drammi storici sulla monarchia inglese; per il resto arriva il gusto che ci porta a amare ora quello ora l'altro genio. Non siamo che personaggi differenti dello stesso enorme dramma, anche nel seguire le Muse. In fin dei conti è giusto così. Le pare? Complimenti per le sue osservazioni.
RispondiEliminami pare, sinceramente mi pare.
Eliminae le confesso che il problema non era tanto il capire schakespeare, quanto il comprendere questo senso di distacco perenne. ora, confesso, "va meglio", come dopo un'influenza... almeno mi son dato una spiegazione. nei tanti commenti ricevuti su FB c'è chi mi ha consigliato questa o quella traduzione. ce ne sono di ottime, ne sono consapevole, ma il problema, purtroppo, resta. Resta con la Poesia in generale, che sia inglese o spagnola...
ce ne faremo una ragione :-)