Il testo di seguito (in grande per i "diversamente cecati").
Magari fate una cosa: un po' di qua e un po' di là, perché gli amici de iConfronti se lo meritano.
Buona lettura.
Il terremoto elettorale di ieri dovrebbe fare riconsiderare
prima di ogni altra cosa la legge per l’elezione diretta del sindaco e del
consiglio comunale.
Quella legge, sbandierata come una delle pochissime (nemmeno
delle poche, pochissime) che funzionano in Italia, è in realtà la madre di
tutti i disastri. Nel suo impianto c’è la morte della politica e l’esaltazione
del personalismo.
Pochi, pochissimi (stavolta lo dico io) gli elettori che si
sono recati alle urne, nel totale il 50,5% degli aventi diritto. Questo ad
esempio vuol dire che a Napoli, dove il 65% non è andato a votare, il 67% circa
con cui Luigi De Magistris è stato eletto è un dato fittizio. Ma nel nome della
“governabilità” - capacità che il politico deve avere di suo e che non può
essere stabilita per legge - il sindaco di Napoli, come quelli di Milano, Roma,
Torino, ecc. si prenderanno in quel consiglio comunale che rappresenta il 100%
della cittadinanza, il 60% dei seggi. Una maggioranza, dunque, falsa, che non
ha riscontri nella realtà.
Certo, la colpa è sempre di coloro che non votano,
indiscutibile; ma il sistema del ballottaggio pone anche l’elettore nella
posizione di dovere scegliere “il meno peggio”, e se egli non si sente
rappresentato, è legittimo che rifiuti di scegliere. Non c’è dunque da
meravigliarsi se i cittadini non fanno il piccolo sforzo di andare al seggio,
perché i motivi possono essere tanti e comprensibili.
Tutto ciò senza considerare lo scempio assoluto: il voto
disgiunto.
Un cittadino, cioè, ha per legge la possibilità di scegliere
un candidato sindaco per esempio del Partito Comunista e contemporaneamente un
consigliere comunale di Forza Nuova. Il che vorrebbe dire che se il sindaco del
PC, poi eletto, sceglierà e proporrà una certa azione per la propria
cittadinanza, il consigliere comunale di FN gli voterà contro. E magari, come è
facile comprendere parlando con le persone, uno dei due è stato votato perché
“è mio cugino”. La politica è una cosa seria, fatta di idee, a mio parere una
sorta di “filosofia applicata”, e così come avviene per le appartenenze
calcistiche per cui non faresti mai il tifo per la squadra in cui tuo cugino
giuoca nel giorno in cui si scontra con la tua, allo stesso modo l’appartenenza
ideologica, quello in cui credi non può essere messo in secondo piano in nome
della parentela, il che vorrà dire che: “caro cugino, mi spiace per te, ma non
ti posso votare”.
Ed un altro sottile inganno si nasconde sotto questo
meccanismo perverso del voto disgiunto, e che spiegherebbe il proliferare di
liste e listarelle: tutti ci provano, sapendo di potere raccatare voti in
qualsiasi comparto ideologico, nella speranza di... trovare “un posto e uno stipendio”.
Potrei continuare con la storia dell’uomo solo al comando,
con gli assessori nominati direttamente e liberamente senza che la giunta
conosca mai gli scossoni di una crisi... ma sono cose già ampiamente segnalate
da giuristi e politologi seri, quelli, ovviamente, inascoltati.
Da ultimo vi segnalo solo uno dei trabocchetti della
“neolingua”: sempre più il sindaco è detto amministratore; “ma il
termine veniva usato anche in passato”, si dirà: vero, verissimo, ma l’uso era
legato a quella bella regola non scritta della lingua italiana che ti chiede di
evitare le ripetizioni ed eri così costretto a cercare sinonimi; uccidendo la
politica, l’amministratore diviene concreto e il sindaco un
sinonimo.
Ma dove, nella giornata di ieri, la legge per l’elezione
diretta del sindaco e del consiglio comunale ha mostrato il suo effettivo
fallimento? Nel meccanismo del ballottaggio.
Esso è umiliante per l’elettore, per la sua funzione e
pulsione politica; lì dove egli non sia più rappresentato, fatta salva la non scelta
(“non vado a votare!”), si vede costretto tra due opzioni: “scegliere il meno
peggio”, e soprattutto “votare contro”.
Accade così che proprio i partiti che sono stati in questi
anni sostenitori della bontà di questa legge si vedono sconfitti nelle urne per
quella che chiamerei “sindrome del contradaiolo senese”, per il quale la prima
regola, il primo motivo di gioia è sempre: “deve perdere la contrada mia
nemica!”, ed “ho vinto!” viene sempre dopo. Anche per questo non ha alcun senso
dire “la destra ha votato per i 5 Stelle”, o “il PD ha votato per la destra”:
gli elettori votano praticamente sempre e solo contro qualcuno.
L’antipolitica ha sempre pagato in questo nostro Paese, da
Mussolini al Giannini de “L’uomo qualunque”, da Bossi a Berlusconi, passando
per Grillo fino a Mattero Renzi, che da “rottamatore”, divenuto uomo di
governo, continua ad usare toni e modi da anti-politico. Questo modo di fare,
come in tutti gli altri casi più o meno lunghi, gli ha dato quel consenso che
poi le azioni reali hanno smontato. Il voto di ieri, un voto sicuramente
“contro”, ne sono l’ennesima dimostrazione. Contro il PD a Torino o Roma,
contro la Lega a Varese, contro la destra a Latina, contro la sinistra a
Cascina, contro la nuova politica a Benevento... tutti, in qualche modo ne sono
toccati. E pure i 5Stelle, fenomeno del momento, prima o poi subiranno “il voto
contro”, sarà inevitabile. Inevitabile anche perché io elettore sono nella
condizione di scegliere “l’uomo e non il partito”, “l’amministratore e non l’ideologia”,
e perché una serie di vincoli che questa “nuova politica” ci ha regalato
rendono quasi impossibile qualsiasi azione da parte di sindaci e deputati.
Resta dunque da chiedersi: come se ne esce?
La risoluzione sarebbe semplice: tornando all’unica politica
che, a dispetto della narrazione, ha funzionato nei settant’anni della nostra
Repubblica, tornando cioè al proporzionale puro, tornando alle maggioranze
costruite in Parlamento (e/o in Consiglio comunale), tornando a quella capacità
di ragionare, mediare, trovare accordi, compromessi (mica è un termine solo
negativo), tornando cioè a una forma che costringa alla Politica, anche chi non
fa apparentamenti. Tornando a quell’antico che sarebbe davvero un progresso.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi per due motivi: il
primo è sicuramente legato alla “narrazione”; avranno la faccia tutti coloro
che hanno ripetuto a manetta che quella dell’elezione diretta del Sindaco e del
Consiglio comunale è una delle poche, anzi pochissime leggi che funzionano in Italia,
di dire che non funziona? No, è in gioco la loro credibilità, e quindi “il
posto e lo stipendio”, dal politico ai Media.
L’altro problema è che questo cambio di direzione
richiederebbe quella capacità di fare Politica che i nostri politici non hanno
più, e quei pochi che ce l’hanno sono stati messi da parte o dileggiati come
rappresentanti del vecchio (e si torna al problema narrativo di cui sopra),
aprendo la strada ai troppi urlatori di turno, agli improvvisati e
improvvisate, alla incompetenza Politica.
Se ne uscirà per forza,
è la Storia a dircelo, a dirci che il popolo e la Politica vera trovano sempre
una soluzione in barba a un’altra narrazione corrente, quella della
“irreversibilità”. Resta solo da vedere quanto tempo ci vorrà e su quante macerie
dovremo camminare prima di cominciare a vedere la luce. Nel mentre, da
Benevento si sta forse materializzando la profezia di Zalone: la prima
Repubblica non si scorda mai. E se il popolo sovrano ne ha nostalgia, un motivo
ci deve essere, alla faccia delle èlites che lo pensano stupido e incapace di
governarsi, le vere sconfitte sono loro.
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