lunedì 20 giugno 2016

TERREMOTO ELETTORALE E SINDROME DEL CONTRADAIOLO SENESE (il fallimento della legge elettorale per l'elezione del Sindaco)

Pubblicato anche qui, su iConfronti.it
Il testo di seguito (in grande per i "diversamente cecati"). 
Magari fate una cosa: un po' di qua e un po' di là, perché gli amici de iConfronti se lo meritano. 
Buona lettura. 



Il terremoto elettorale di ieri dovrebbe fare riconsiderare prima di ogni altra cosa la legge per l’elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale.
Quella legge, sbandierata come una delle pochissime (nemmeno delle poche, pochissime) che funzionano in Italia, è in realtà la madre di tutti i disastri. Nel suo impianto c’è la morte della politica e l’esaltazione del personalismo.
Pochi, pochissimi (stavolta lo dico io) gli elettori che si sono recati alle urne, nel totale il 50,5% degli aventi diritto. Questo ad esempio vuol dire che a Napoli, dove il 65% non è andato a votare, il 67% circa con cui Luigi De Magistris è stato eletto è un dato fittizio. Ma nel nome della “governabilità” - capacità che il politico deve avere di suo e che non può essere stabilita per legge - il sindaco di Napoli, come quelli di Milano, Roma, Torino, ecc. si prenderanno in quel consiglio comunale che rappresenta il 100% della cittadinanza, il 60% dei seggi. Una maggioranza, dunque, falsa, che non ha riscontri nella realtà.
Certo, la colpa è sempre di coloro che non votano, indiscutibile; ma il sistema del ballottaggio pone anche l’elettore nella posizione di dovere scegliere “il meno peggio”, e se egli non si sente rappresentato, è legittimo che rifiuti di scegliere. Non c’è dunque da meravigliarsi se i cittadini non fanno il piccolo sforzo di andare al seggio, perché i motivi possono essere tanti e comprensibili.
Tutto ciò senza considerare lo scempio assoluto: il voto disgiunto.
Un cittadino, cioè, ha per legge la possibilità di scegliere un candidato sindaco per esempio del Partito Comunista e contemporaneamente un consigliere comunale di Forza Nuova. Il che vorrebbe dire che se il sindaco del PC, poi eletto, sceglierà e proporrà una certa azione per la propria cittadinanza, il consigliere comunale di FN gli voterà contro. E magari, come è facile comprendere parlando con le persone, uno dei due è stato votato perché “è mio cugino”. La politica è una cosa seria, fatta di idee, a mio parere una sorta di “filosofia applicata”, e così come avviene per le appartenenze calcistiche per cui non faresti mai il tifo per la squadra in cui tuo cugino giuoca nel giorno in cui si scontra con la tua, allo stesso modo l’appartenenza ideologica, quello in cui credi non può essere messo in secondo piano in nome della parentela, il che vorrà dire che: “caro cugino, mi spiace per te, ma non ti posso votare”.
Ed un altro sottile inganno si nasconde sotto questo meccanismo perverso del voto disgiunto, e che spiegherebbe il proliferare di liste e listarelle: tutti ci provano, sapendo di potere raccatare voti in qualsiasi comparto ideologico, nella speranza di... trovare “un posto e uno stipendio”.
Potrei continuare con la storia dell’uomo solo al comando, con gli assessori nominati direttamente e liberamente senza che la giunta conosca mai gli scossoni di una crisi... ma sono cose già ampiamente segnalate da giuristi e politologi seri, quelli, ovviamente, inascoltati.
Da ultimo vi segnalo solo uno dei trabocchetti della “neolingua”: sempre più il sindaco è detto amministratore; “ma il termine veniva usato anche in passato”, si dirà: vero, verissimo, ma l’uso era legato a quella bella regola non scritta della lingua italiana che ti chiede di evitare le ripetizioni ed eri così costretto a cercare sinonimi; uccidendo la politica, l’amministratore diviene concreto e il sindaco un sinonimo.
Ma dove, nella giornata di ieri, la legge per l’elezione diretta del sindaco e del consiglio comunale ha mostrato il suo effettivo fallimento? Nel meccanismo del ballottaggio.
Esso è umiliante per l’elettore, per la sua funzione e pulsione politica; lì dove egli non sia più rappresentato, fatta salva la non scelta (“non vado a votare!”), si vede costretto tra due opzioni: “scegliere il meno peggio”, e soprattutto “votare contro”.
Accade così che proprio i partiti che sono stati in questi anni sostenitori della bontà di questa legge si vedono sconfitti nelle urne per quella che chiamerei “sindrome del contradaiolo senese”, per il quale la prima regola, il primo motivo di gioia è sempre: “deve perdere la contrada mia nemica!”, ed “ho vinto!” viene sempre dopo. Anche per questo non ha alcun senso dire “la destra ha votato per i 5 Stelle”, o “il PD ha votato per la destra”: gli elettori votano praticamente sempre e solo contro qualcuno.
L’antipolitica ha sempre pagato in questo nostro Paese, da Mussolini al Giannini de “L’uomo qualunque”, da Bossi a Berlusconi, passando per Grillo fino a Mattero Renzi, che da “rottamatore”, divenuto uomo di governo, continua ad usare toni e modi da anti-politico. Questo modo di fare, come in tutti gli altri casi più o meno lunghi, gli ha dato quel consenso che poi le azioni reali hanno smontato. Il voto di ieri, un voto sicuramente “contro”, ne sono l’ennesima dimostrazione. Contro il PD a Torino o Roma, contro la Lega a Varese, contro la destra a Latina, contro la sinistra a Cascina, contro la nuova politica a Benevento... tutti, in qualche modo ne sono toccati. E pure i 5Stelle, fenomeno del momento, prima o poi subiranno “il voto contro”, sarà inevitabile. Inevitabile anche perché io elettore sono nella condizione di scegliere “l’uomo e non il partito”, “l’amministratore e non l’ideologia”, e perché una serie di vincoli che questa “nuova politica” ci ha regalato rendono quasi impossibile qualsiasi azione da parte di sindaci e deputati.
Resta dunque da chiedersi: come se ne esce?
La risoluzione sarebbe semplice: tornando all’unica politica che, a dispetto della narrazione, ha funzionato nei settant’anni della nostra Repubblica, tornando cioè al proporzionale puro, tornando alle maggioranze costruite in Parlamento (e/o in Consiglio comunale), tornando a quella capacità di ragionare, mediare, trovare accordi, compromessi (mica è un termine solo negativo), tornando cioè a una forma che costringa alla Politica, anche chi non fa apparentamenti. Tornando a quell’antico che sarebbe davvero un progresso.
Facile a dirsi, ma difficile a farsi per due motivi: il primo è sicuramente legato alla “narrazione”; avranno la faccia tutti coloro che hanno ripetuto a manetta che quella dell’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio comunale è una delle poche, anzi pochissime leggi che funzionano in Italia, di dire che non funziona? No, è in gioco la loro credibilità, e quindi “il posto e lo stipendio”, dal politico ai Media.
L’altro problema è che questo cambio di direzione richiederebbe quella capacità di fare Politica che i nostri politici non hanno più, e quei pochi che ce l’hanno sono stati messi da parte o dileggiati come rappresentanti del vecchio (e si torna al problema narrativo di cui sopra), aprendo la strada ai troppi urlatori di turno, agli improvvisati e improvvisate, alla incompetenza Politica.
Se ne uscirà per forza, è la Storia a dircelo, a dirci che il popolo e la Politica vera trovano sempre una soluzione in barba a un’altra narrazione corrente, quella della “irreversibilità”. Resta solo da vedere quanto tempo ci vorrà e su quante macerie dovremo camminare prima di cominciare a vedere la luce. Nel mentre, da Benevento si sta forse materializzando la profezia di Zalone: la prima Repubblica non si scorda mai. E se il popolo sovrano ne ha nostalgia, un motivo ci deve essere, alla faccia delle èlites che lo pensano stupido e incapace di governarsi, le vere sconfitte sono loro. 


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