Ho casualmente ascoltato
ieri, nello zapping televisivo, una interessante intervista a Gabriele Lavia,
il M° Gabriele Lavia.
Molti passaggi
interessanti, ma uno in particolare mi piace porre alla vostra attenzione, mie
fidati 22 lettori.
Diceva a un certo punto
Lavia, che spesso “vado a Teatro e... non capisco”. Il “non capisco” era
riferito a quello che vedeva, alle messe in scena, ed in particolare al
dipanarsi della storia. Questo perché, spiegava, spesso e volentieri, i suoi
colleghi fanno cose che prevaricano la narrazione, che si sovrappongono al
plot, lasciando nello spettatore una serie di dubbi e di incomprensioni. Si
presume che lo spettatore già sappia, sopra tutto nel caso dei classici: “Io
rivendico il diritto dello spettatore a non sapere. Tu sai cos’è e chi è Medea
– diceva all’intervistatore – ma sei sicuro che lo sappia anche un ragazzo di
undici anni che viene per la prima volta a Teatro, o un signore che sa mille
altre cose ma non conosce la storia di Medea? Sarò antico, ma credo che nostro
compito primario è raccontargli una storia e fare in modo che la capisca, e
bene”.
Lavia non si rende forse
conto di quanto sia antico e di quanto sia politicamente scorretto il suo
pensiero. Provate ad andare a una cena di radical chic intellettualoidi e a
dire in quella sede che non conoscete Medea, che non l’avete mai letta...
reazioni di indignazione e, pure, di sottinteso disprezzo.
Dal canto mio, quando
confesso di avere letto poco teatro, vengo guardato con sospetto. Inutile che
spieghi che fu un pensiero elaborato da ragazzo che piacevolmente continuo a
coltivare per un appassionato motivo: quando vado a Teatro voglio che in
qualche modo quella sia la mia “prima mondiale”, voglio scoprire la storia lì,
in quel luogo e da nessuna altra parte. Non c’ero circa seicento anni fa quando
ci fu la prima di Amleto, ma può questo impedirmi di mettermi nella condizione
di quello spettatore che per la prima volta assistette alla storia del principe
di Danimarca, o del Misantropo molièriano, o assistere alla mia prima assoluta
apparizione dei Sei personaggi? No se non conosco la storia, se non ho letto
prima il testo. Il meccanismo, purtroppo, non l’ho sempre adottato – il lavoro
non me ne ha dato la possibilità – ma quelle volte che è successo, non vi nascondo
che un meraviglioso stupore si è impossessato di me, come per esempio quando
assistetti alla mia prima mondiale di Elettra di Euripide.
Ne parlai alla fine con
una brava collega che vi lavorava, e quando capii che non conoscevo il testo,
rimase sbalordita: “MA CCCCOOOOMEEEE?!”, con lieve disapprovazione. Non lo conoscevo, e allora? Fu, cose che lei
non poteva comprendere, una serata bellissima, una emozione nuova.
Ultimamente – fatevi
questa risata – ho assistito al Regio di Torino al Faust di Gounod. Opera da me
mai ascoltata. A un certo punto l’orchestra è esplosa in modo tale che mi è
scappato, credo forte, un “Li mortacci...”. Varie capocce si sono improvvisamente
rigirate verso di me. Il buio non mi ha fatto comprendere con che tipo di
espressione.
Io trovo che sia una
bella cosa, altri se ne stupiscono e si indignano. Non so cosa farci.
Ma Lavia, il M° Gabriele
Lavia, continuava con una osservazione ancor più interessante: è necessario
cercare la chiarezza perché “il pubblico non ha tempo”.
Anche su questa cosa mi
sono trovato in pieno accordo. Lavia, che è un vero Maestro, riesce a
sintetizzare un altro mio pensiero, che spesso condivido con i più giovani: “Tu
l’hai letta decine di volte, hai fatto le prove, le repliche, sai benissimo
cosa c’è scritto; il pubblico che viene a Teatro la sente per la prima ed unica
volta e non può tornarci sopra come fai tu alla replica successiva, o a casa
con un videoregistratore. Deve essere chiara!”.
Effettivamente Lavia è
più bravo (e non ne ho mai avuto dubbi!): “Il pubblico non ha tempo”, e il
discorso è finito, netto, chiaro, inconfutabile.
Mettendo insieme le due
cose, si può ragionare anche su di un altro aspetto: ha un senso, oggi,
richiamarsi innanzi tutto alla storia, alla semplice narrazione?
Credo di sì. Credo che in
questi tempi di profondo sbandamento, di confusione, di tentativi violenti e al
contempo impercettibili di indirizzare il pensiero collettivo, tornare alla
base, alle radici, riaffondare le radici in pochi e semplici insegnamenti per poter
ripartire, ancora una volta, possa essere una grande opportunità.
Intendiamoci, questo non
vuole dire tornare a fare il teatro con i fondalini dipinti (che pure sarebbe
divertente), ma riconsiderare come fondamentali quei pochi e basilari elementi
del Teatro, e quindi della professione, che si vanno pian piano disperdendo.
Tanto per fare un
esempio: se devo far capire bene la storia, devo apprendere bene come usare la
voce e l’articolazione; e devo fare in modo che ogni mio gesto sia chiaro e
leggibile, il che comporta una conoscenza adeguato del corpo e del suo uso,
ecc. ecc.
Insomma, quel tanto
citato, e forse mai adeguatamente compreso, motto di Verdi: “Torniamo
all’antico e sarà un progresso”. Perché il progresso passa sempre attraverso
una rigenerazione dell’antico, ha bisogno di un ripassare attraverso le radici.
È come tuffarsi in piscina: vai a fondo, a
fondo... e poi, per ritornare su agilmente, devi poter toccare il fondo
della vasca, spingi e risali.
In fondo non mi pare
complicato.
Solo un paradosso (di
quelli che solo il Teatro sa proporre): come faccio a rendere chiara la
narrazione per lo spettatore? C’è un modo, una tecnica, un trucco?
Penso di sì, e si
concentra in questo assunto: perché sia chiaro agli altri deve essere molto
chiaro per te; più è chiaro per te, più lo sarà per gli altri.
E quando dico “chiaro”
ovviamente non mi riferisco solo alla enunciazione delle semplici parole,
intendo anche i sentimenti, i sottotesti, le intenzioni, il non detto... tutto
insomma.
Il che, a conti fatti,
non rende facili le cose. Ma noi, come diceva Eduardo De Filippo, non siamo
nati per le cose facili, ma per quelle difficili. E, badate bene, non lo diceva
solo per gli attori, ma per tutti gli esseri umani.
Per il resto, fate voi.
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