lunedì 24 luglio 2017

PE NUJE CA CE CHIAGNIMMO 'O CIELO 'E NAPULE

"Pe nuje ca ce chiagnimmo 'o cielo 'e Napule" è un verso della famosissima canzone partenopea, "Lacreme napulitane".
Il brano di Bovio - Bongiovanni è stato interpretato praticamente da tutti i più grandi cantanti nostrani e non solo, se ne ricorda, ad esempio, una felicissima versione di Mina



Impagabile, per me, oltre le versioni di un giovane Massimo Ranieri, e la classicissima di Roberto Murolo, l'edizione sanguigna, popolare, scostumata, sgraziata, verace, straziante di Mario Merola


Di Mario ricordo la definizione preziosa di un altro Mario che è passato nella mia vita in un momento importante e con effetto determinante, Mario Maranzana. Maranzana non c'è più. È stato un bravissimo attore italiano, che ha fatto anche cose importanti, e che quelli che cominciano ad avere i capelli bianchi come me, ricorderanno certamente come uno dei sottoposto dello splendido Gino Cervi nel Commissario Maigret. La notizia della sua dipartita è passata in sordina come quella di tanti altri bravi attori italiani. Qualche tempo fa ci ha lasciato, per esempio, Marina Bonfigli. Oltre che compagna di Giulio Bosetti per una vita, Marina è stata la prima interprete italiana, con Strehler, di Polly ne "L'opera da tre soldi" di Brecht, ha interpretato decine di importanti personaggi in teatro e in tv... ma questo è ormai un Paese irriconoscente e di memoria cortissima. Un tempo usava un annuncio nei principali telegiornali Rai, con una foto che richiamasse nella mente del pubblico il volto dell'interprete scomparso, se la figura era davvero importante anche un servizio, ma ora, più nulla.
Va bene così. I tempi cambiano e forse siamo noi a sbagliare pensando ancora nelle modalità di un antico rispetto quando il rispetto non usa più.
Mario Maranzana, dunque, di Merola mi disse una sera a tavola dopo spettacolo a Caserta vecchia: "Fa schifo ma è il più grande", e mentre lo diceva si sbatteva la mano sul petto come a indicare quella predominanza senza limiti del cuore su qualsiasi altro organo funzionale a una qualsiasi interpretazione artistica. La gioventù non ti fornisce mai gli strumenti per capire le sintesi di un qualsiasi artista che abbia passato trenta o quarant'anni sul palcoscenico, ci arrivi sempre irrimediabilmente dopo. "Fa schifo ma è il più grande" con quella mano sbattuta ngopp' 'o pietto ci ho messo anni a capirla, e credo, oggi, che volesse dire: se devo dare un giudizio da uomo di spettacolo ortodosso, vi dico che è pessimo, ma se guardo alla forza, alla passione che riversa sul pubblico, a quanto riesca ad essere dirompente, posso solo inchinarmi e dire sei stra-ordinario.
Certo, c'è un abisso tra la classe di Mina e Merola, tra l'eleganza di Murolo e Merola... ma ho avuto la fortuna, io giovanissimo, di vederlo in teatro proprio nella sceneggiata omonima, e alla fine, in una platea delirante di amore, posso assicurarvi che non c'era uno che non piangesse Lacreme tutte napulitane. Chapeau! Mille volte Chapeau! avrò avuto dodici anni e quel brivido me lo ricordo ancora.

Pe nuje ca ce chiagnimmo 'o cielo 'e Napule.
"Lacreme napulitane" è una canzone che ho sempre avuto grande difficoltà a cantare in pubblico, perché mi provoca una commozione che un interprete non dovrebbe mai mettere in mostra, e che mi rende difficoltoso il cantare. Quando sei sul palco - io, figlio di una vecchia regola - penso sempre che sia il pubblico a doversi emozionare, nel riso o nel pianto, e non tu. Cosa gliene può importare alla gente che tu pianga o rida se loro non piangono o ridono? È uno scambio commerciale: io pago, tu mi devi emozionare; non pago per vedere te che ti emozioni. Nessuno compra un paio di scarpe per vederle indossare alla commessa, a meno che non sia particolarmente carina!
Una sera, però, feci una eccezione. Fui invitato a un raduno della FILEF, a Vietri sul Mare, in un ristorante dove, dopo la cena, avrei dovuto intrattenere i gentili ospiti con canzoni napoletane.
La FILEF è la meritevole organizzazione fondata da Carlo Levi che si occupa fin dal suo primo giorno di vita degli emigranti e delle loro famiglie.
Gli ospiti, quella sera, erano tutti giovanissimi, tra i venti e i venticinque anni, figli di emigranti italiani in Argentina, Canada, Brasile, Germania... Ragazzi e ragazze nati in quei paesi, emigranti, come si direbbe oggi, di seconda o terza generazione.
Fu un concerto piacevole, divertente, ed alla fine tutti loro vollero ascoltare quella canzone. Dapprima mi negai, poi li accontentai sapendo il rischio che correvo, che ad un certo punto non sarei più riuscito ad andare avanti, ma era così tenera quella gioventù che era impossibile dirgli di no.
E feci bene, perché mai e poi mai dimenticherò la scena cui assistetti.
A un certo punto la canzone dice: "Je so' carne 'e maciello, so' emigrante". Da quel passaggio in poi, quei ragazzi, la maggior parte dei quali per la prima volta veniva in Italia, cominciarono a piangere, come fontane, e non si fermarono che molto dopo la fine della canzone, tra gli applausi scroscianti per una interpretazione che non so come fosse, forse mediocre.
Ero stupefatto: loro non erano gli emigranti, emigranti erano stati i loro nonni o genitori, eppure qualcosa li legava, in quel canto, indissolubilmente alla terra di origine, al punto che non riuscivano a trattenere le lacrime. Chissà quanti e quali erano i racconti che avevano ascoltato, chissà come erano i volti dei loro nonni o padri, segnati certo, immaginai, da dolore, tenacia e fatica per dare ai propri figli una vita migliore.
Solo un'altra volta ho visto una scena del genere, qui a Torino, in un ristorante argentino dove andammo con due nostre amiche originarie di quel paese, Mariel e Lorena.
Mariel e Lorena non sono certo figlie di poveri emigranti, hanno sposato degli alti dirigenti di azienda e vivono qui per il lavoro dei loro mariti, hanno una vita serena e tranquilla... ma c'era nel ristorante un cantante che, chitarra in braccio, deliziava gli avventori con vecchie canzoni argentine. Mariel sopra tutto, ha cominciato  chiedere al posteggiatore vecchi motivi del loro paese, canzoni meno note, nelle quali passava una intesa degli occhi che a un certo punto hanno cominciato a velarsi di lacrime.
A guardarli, anche io mi sono commosso, io che sono solo a 900 km da casa, io che basta che prenda un treno per essere nel cielo che me chiagno tutte 'e juorne, perché capivo per l'ennesima volta, che nessuno può volere davvero lasciare la terra in cui è nato. E capivo che aveva ragione Carlo Levi quando diceva che l'emigrazione è sempre una violenza per chi vi è costretto, aggiungendovi un pensiero troppo raffinato per essere compreso senza una lunga meditazione: che l'integrazione è uno sradicamento definitivo. Perciò, dice Levi a proposito degli emigranti: "uguali diritti sì, integrazione no!". Chi, tra i nostri politici e intellettuali, capirebbe oggi una tale sottigliezza? Forse solo Papa Benedeto XVI (che Dio lo conservi a noi).

Pe nuje ca ce chiagnimmo 'o cielo 'e Napule.
Scrive Saramago ne "Una terra chiamata Alentejo" che c'è una sola cosa di cui ci sarà sempre abbondanza, ed è il paesaggio. Costruiremo case, palazzi, abbatteremo alberi o ne pianteremo, cambierà la linea dei nostri colli o il profilo delle nostre spiagge, eppure il "paesaggio", nel suo perenne divenire, sarà sempre lì, diverso sempre e pure sempre "paesaggio".
Ma nel "paesaggio", penso io, c'è un'altra cosa che l'uomo non riuscirà a modificare e di cui ci sarà sempre abbondanza, e sarà l'elemento che ce lo farà sempre riconoscere come nostro, come il punto in cui siamo nati: la luce.
Cosa avrà mai di diverso il "cielo di Napule" per essere così desiderato da quegli emigranti?
Niente.
Ma è il cielo che riconosci poiché ne riconosci la luce.
"Venire alla luce", usato come "nascere", è forse l'espressione che più ci caratterizza poiché la prima luce che vedemmo è sempre quella che riconosciamo anche se non ce ne accorgiamo, anche se non ci abbiamo mai riflettuto, anche se non ci abbiamo mai fatto caso. Perché un azzurro, non è uguale a un altro. Io la riconosco, la luce della mia terra, la luce della mia città, e la vedo diversa dalla luce del luogo in cui ora, sia pur serenamente, vivo. Non è il cielo in sé, di cielo anche ce ne sarà sempre in abbondanza in ogni parte del mondo. Ma oggi che vivo tra i monti, mi accorgo che la luce dove c'è il mio mare è diversa. Non è più bella o più brutta di quella di ora, come quella di ora non è più brutta o più bella di quella della mia città. Semplicemente cambia, è diversa, e io la riconosco.
Forse era questo che si piangeva l'emigrante, ma dovendo concretizzarlo in una "cosa", ecco che "la luce" diviene "il cielo".
Siamo "venuti alla luce" ognuno di noi in un luogo del caso, ma il caso ci ha fatto il regalo di riconoscere sempre quella luce. Ho vissuto ventisette anni a Roma, e pure quella luce vedo come diversa: per me è la luce di Roma; che è diversa da quella della mia Salerno, e diversa da quella di Torino. Sono a casa, perché riconosco la luce, anche di notte.
Chi se chiagne 'o cielo 'e Napule, pò essere ca se chiagne a luce 'e quanno era guaglione, 'a luce d' 'a giuvinezza, 'a luce 'e na vita ch'ancora s'ha da fa' vedé, 'a luce d' 'a speranza e d' 'a bellezza. 
'A terra cagna, 'a luce resta, te resta dint' 'a ll'uocchie, sempre. 
Poi sarà buio, e pe nuje ca ce chiagnimmo 'a luce 'e casa... comme è amaro stu pane.

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