sabato 8 aprile 2017

IL GRANDE TORINO, LE MEMORIE CHE NON SI SPIEGANO.

Sono stato ieri sera a vedere un piacevole spettacolo al cinema teatro Agnelli di Torino: "Tesi di Laurea", prodotto da Assemblea Teatro, da un testo di Barbara Mastella, nella riduzione teatrale di Renzo Sicco, regia di Giovanni Boni, interpretato da Silvia Nati, Mattia Mariani, Angelo Scarafiotti, Roberta Fornier, Stefano Cavanna. Qui il link con altre informazioni, stasera (8 aprile) replicano al teatro di Rivalta.
Tema della narrazione Il Grande Torino, raccontato specificamente attraverso la vita di due dei suoi atleti: Aldo e Dino Ballarìn. Il primo fu uno dei pilastri della difesa di quella storica squadra, l'altro, di lui fratello, era uno dei portieri di riserva.
Uno schema di narrazione semplice ma efficace: venti anni dopo la tragedia di Superga, uno studente decide di scrivere la sua tesi di laurea su quella squadra e intervista le vedove dei campioni insieme agli altri due fratelli Ballarin.
Io sono nato nel 1965. Il grande Torino non c'era già più, era già leggenda, leggenda di una Italia che si ricostruiva dopo la terribile ultima guerra mondiale e si attaccava con le unghie e con i denti al suo orgoglio e a quegli eroi dello sport che tenevano alta la fede in un futuro possibile e migliore.
Coppi, Bartali... il Grande Torino... ma anche Toscanini, e la diatriba Tebaldi - Callas...
La squadra più forte del mondo, si diceva. Così ce l'ha consegnata la narrazione, a noi piace pensarlo e nessuno saprà mai se è vero; ma non ha alcuna importanza.
Di certo, come in tutti i miti, la parabola di quella squadra, dalla sua costruzione, alla possente ascesa, fino alla fine tragica, ce la consegna come una icona della Storia nazionale.
Io sono nato nel 1965. Eppure, tutte le volte che sento le storie del Grande Torino, prima o poi mi commuovo. È accaduto anche ieri sera. E mi chiedo perché.
Forse perché la storia del Grande Torino me l'ha raccontata mio padre che orgogliosamente ricorda sempre che lui, aveva dodici anni, li ha visti giocare, a Salerno, nel primo campionato che quella Salernitana innovativa di Gipo Viani fece in serie A.
Papà, 81 anni, ripete ancora la formazione del Torino a memoria, e l'ho sentita tante di quelle volte che alla fine l'ho imparata anche io. Quando viene a Torino, chiede di essere portato su a Superga. Da quando poi abbiamo scoperto nei pressi della Basilica una buona trattoria... tutto mi mescola perfettamente, piacere dei ricordi e piacere dell'oggi.



La mia Salernitana porta la maglia granata. Simpatizzo per il Napoli nella nostra serie A, sono molto contento quando vince, ma solo quando vedo le maglie granata scendere sul verde del campo da gioco io mi emoziono.
Amo lo sport, il ciclismo ancora più del calcio, ma amo lo sport. E francamente non voglio interrogarmi sul perché, non voglio dare motivazioni intellettuali a quella che è solo una piacevole sensazione che nasce nei giorni in cui ero bambino, e seguivo le corse strepitose di Pietro Mennea (per me il campione dei campioni), le sfide tra Merckx e Gimondi e poi Moser Saronni, e il mito di Marc Spitz, e Cassius Clay, Rivera, Mazzola e Riva... fino a Marco Pantani; quanti ne sono passati nei miei occhi fino ai giorni nostri. E per una volta va dato un profondo ringraziamento alla televisione.
Dopo la tragedia di Superga, la Salernitana, che aveva all'epoca una maglia a strisce verticali bianche e celesti, adottò, come tante altre squadre italiane, la maglia granata. Il che, da quando vivo nella capitale sabauda, mi fa guardare sempre con simpatia al Torino: quando lo vedo mi pare di essere sempre un po' a casa.
Ieri sera, al teatro Agnelli, alla fine ci è stata fatta una piacevole sorpresa: c'era in sala un nipote di Ballarìn, venuto appositamente da Chioggia, città natale dei due calciatori; salito sul palco ci ha mostrato un vero e proprio cimelio: una delle nove maglie con cui Aldo Ballarìn giocò in nazionale. Quando questo nipote, di cui, mi scuso, non ho compreso il nome, è ridisceso in platea l'ho fermato - non potevo non farlo - e gli ho chiesto di toccare quella maglia. Da lontano mi pareva piccola piccola. Come ci poteva star dentro uno di quei colossi, mi chiedevo. E infatti piccola lo era. Ma mi ha spiegato il nipote che era di una lana particolare che si stendeva, quasi elastica, e fasciava il corpo del giocatore. "Mamma mia - ho pensato - se papà fosse qui e vedesse questo cimelio...". Io lo conosco, conosco il cinismo che la professione giornalistica lo ha costretto ad acquisire, sorriderebbe, al massimo un sospiro che indica gli anni passati, e poi tirerebbe dritto. Come fai a sapere che si è emozionato? Perché poi, in qualsiasi occasione, te lo ripete mille volte: "Maro', chella maglia 'e Bàllarin...".
Sì, perché lui ha sempre detto Bàllarin, e io così ero convinto che fosse; solo ieri sera ho scoperto la pronuncia veneta. Ma a papà non lo dico. Perché togliergli quella sua musica dalla testa, perché spostare la sua melodia: "Bacigalupo, Bàllarin, Maroso..."? Se le cose, nel nostro cuore, si sedimentano in un modo, un motivo ci sarà, e non è sempre il caso di andarlo a cercare.
Io non ho mai visto il Grande Torino. Eppure fa parte della mia storia, delle mie memorie, mi ricollega a un passato non vissuto ma raccontato, il mio vissuto sono quei racconti, e dietro e dietro ancora, i ricordi di coloro che hanno vissuto o hanno sentito raccontare.
Ci sono volte nelle quali dobbiamo strenuamente, fino allo sfinimento interrogarci per capire, altre in cui credo sia obbligatorio lasciar perdere. In qualche angolo del mio cuore c'è e ci sarà sempre la voce di papà che ripete: Bacigalupo, Bàllarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola...
E va bene così. Punto.

 

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