lunedì 11 gennaio 2016

LA PERCEZIONE


















Da qualche tempo si è inserito nel dibattito politico italiano un dato estremamente interessante, quello della “percezione”.
Interessante non tanto per quel che di volta in volta racconta, quanto per l’uso che ne viene fatto.
Ad esempio, la percezione della corruzione o la fiducia degli italiani nella ripresa economica (che sempre di una percezione si tratta), vengono sbandierati dalla “armata governativa” come un dato importante su cui basare le decisioni future o sul quale far ruotare la retorica del buon lavoro svolto.
In questo caso, va a capire il perché, la “percezione” assume un “valore scientifico”. Sulla base di cosa non si sa. Che può esserci di scientifico nel fatto che io percepisca che gli altri non mi vogliono bene, o che sono corrotti, o raccomandati o ammalati o buoni o grassi o magri...?
È soltanto la mia percezione, la mia sensazione. Che valore può avere rispetto ai dati, per esempio, del PIL o della disoccupazione? Ma siccome serve alla narrazione (Dio!, non se ne può più di questo termine, bisognerà trovare un’altra parola) di chi guida la barca, ecco che il dato viene sbandierato ai quattro venti.
Lasciamo stare per ora a cosa può servire il dire che gli Italiani percepiscono il loro Paese come il più corrotto d’Europa. Basterebbe, per controbattere, mostrare che i Tedeschi percepiscono il LORO Paese come il più corrotto d’Europa.
Stamane sento un altro dato: tra gli Italiani, in rapporto al problema emigrazione, è alta la percezione di insicurezza con conseguente paura.
Curiosamente, ascoltando i soliti dibattiti televisivi, questo elemento viene immediatamente smontato, rilevando, appunto, che si tratta di “percezione”, e che quindi ha un valore relativo.
La prima osservazione che sorge è: perché se la percezione interessa voi è trattata come dato assoluto, se viene contro la vostra “narrazione” invece non lo è?
Fatevi la domanda e datevi la risposta perché tanto è facile.

La seconda osservazione è forse più interessante: la “percezione” diventa dato scientifico nel momento in cui si entra nel campo della psicologia. Nel momento in cui, cioè, essa rileva il rapporto tra il racconto (sinonimo di narrazione) fatto e il risultato psicologicamente ottenuto; quando, insomma, viene ad indicare la relazione non tra il mio operare e i risultati reali, ma tra il come te la racconto e il quanto mi credi. Questa relazione è talmente forte - forte perché si sedimenta nel profondo di un inconscio sia singolo che collettivo – che diviene difficilissimo, quasi impossibile smontarla (chi è passato in psicoterapia sa che non basta un giorno o una settimana di cura per cambiare la propria visione delle cose).
Con questo tipo di “indagine di mercato”, dunque, posso verificare se attraverso il consolidamento della tua percezione, la mia narrazione è stata efficace; quindi, ciò che realmente si consolida è... il mio potere, la mia possibilità futura di gestire le cose rilevando di volta in volta quanto devo correggere la “narrazione” e quanto questa può procedere sullo stesso binario.
La scientificità, dunque, è nell’uso delle parole che, come scriveva Roland Barthes, sono una chimica impalpabile, ci entrano dentro e ci modificano, che noi lo si voglia o no, che noi lo si percepisca o no. E a questa bella citazione colta (Barthes fa sempre “colto”), ve ne accosterei un’altra, di Xavier Marias, dal suo romanzo “Un cuore così bianco” (titolo non a caso preso da battuta del Macbeth shaekespiariano), che osserva una cosa talmente semplice quanto irrilevata e vera: “Le orecchie non hanno palpebre”.


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