Da qualche tempo si è
inserito nel dibattito politico italiano un dato estremamente interessante,
quello della “percezione”.
Interessante non tanto
per quel che di volta in volta racconta, quanto per l’uso che ne viene fatto.
Ad esempio, la percezione della corruzione o la fiducia degli italiani nella ripresa economica
(che sempre di una percezione si tratta), vengono sbandierati dalla “armata
governativa” come un dato importante su cui basare le decisioni future o sul
quale far ruotare la retorica del buon lavoro svolto.
In questo caso, va a
capire il perché, la “percezione” assume un “valore scientifico”. Sulla base di
cosa non si sa. Che può esserci di scientifico nel fatto che io percepisca che
gli altri non mi vogliono bene, o che sono corrotti, o raccomandati o ammalati
o buoni o grassi o magri...?
È soltanto la mia
percezione, la mia sensazione. Che valore può avere rispetto ai dati, per
esempio, del PIL o della disoccupazione? Ma siccome serve alla narrazione (Dio!,
non se ne può più di questo termine, bisognerà trovare un’altra parola) di chi
guida la barca, ecco che il dato viene sbandierato ai quattro venti.
Lasciamo stare per ora a
cosa può servire il dire che gli Italiani percepiscono il loro Paese come il
più corrotto d’Europa. Basterebbe, per controbattere, mostrare che i Tedeschi
percepiscono il LORO Paese come il più corrotto d’Europa.
Stamane sento un altro
dato: tra gli Italiani, in rapporto al problema emigrazione, è alta la
percezione di insicurezza con conseguente paura.
Curiosamente, ascoltando
i soliti dibattiti televisivi, questo elemento viene immediatamente smontato,
rilevando, appunto, che si tratta di “percezione”, e che quindi ha un valore
relativo.
La prima osservazione
che sorge è: perché se la percezione interessa voi è trattata come dato
assoluto, se viene contro la vostra “narrazione” invece non lo è?
Fatevi la domanda e
datevi la risposta perché tanto è facile.
La seconda osservazione
è forse più interessante: la “percezione” diventa dato scientifico nel momento
in cui si entra nel campo della psicologia. Nel momento in cui, cioè, essa
rileva il rapporto tra il racconto (sinonimo di narrazione) fatto e il
risultato psicologicamente ottenuto; quando, insomma, viene ad indicare la
relazione non tra il mio operare e i risultati reali, ma tra il come te la
racconto e il quanto mi credi. Questa relazione è talmente forte -
forte perché si sedimenta nel profondo di un inconscio sia singolo che
collettivo – che diviene difficilissimo, quasi impossibile smontarla (chi è
passato in psicoterapia sa che non basta un giorno o una settimana di cura per
cambiare la propria visione delle cose).
Con questo tipo di
“indagine di mercato”, dunque, posso verificare se attraverso il consolidamento
della tua percezione, la mia narrazione è stata efficace; quindi, ciò che
realmente si consolida è... il mio potere, la mia possibilità futura di gestire
le cose rilevando di volta in volta quanto devo correggere la “narrazione” e quanto
questa può procedere sullo stesso binario.
La scientificità,
dunque, è nell’uso delle parole che, come scriveva Roland Barthes, sono una
chimica impalpabile, ci entrano dentro e ci modificano, che noi lo si voglia o
no, che noi lo si percepisca o no. E a questa bella citazione colta (Barthes fa
sempre “colto”), ve ne accosterei un’altra, di Xavier Marias, dal suo romanzo
“Un cuore così bianco” (titolo non a caso preso da battuta del Macbeth
shaekespiariano), che osserva una cosa talmente semplice quanto irrilevata e
vera: “Le orecchie non hanno palpebre”.
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