giovedì 26 giugno 2025

TUTTA, FORTE E CHIARA! (i fantastici detti degli attori di un tempo)

 Quando iniziai a lavorare in Teatro, c'erano una serie di vecchie e sintetiche indicazioni che ancora gli attori si lanciavano e rilanciavano, e che spesso solo loro capivano. 
Cosa vorrà dire, per esempio: "Perdi aria dal culo!". I giovani attori magari non lo sanno, ma sono certo che, come accadde a noi la prima volta che ce lo sentimmo dire, ne capirebbero subito il senso. Vuol dire che sei sul palco, stai recitando, o provando a farlo, ma non sei energico, teso, innervato, che insomma sei floscio, e l'aria, ma non quella intestinale come banalmente si potrebbe pensare, ma quella della emissione vocale, invece di uscire dalla bocca, si perde da altro orifizio. 
Oppure, ricordo, "passare la ribalta", che semplicemente era un invito a fare arrivare la voce fino in fondo alla sala, e che di sicuro se avesse passato la ribalta sarebbe appunto arrivata fino in fondo. 
Su questo c'è un simpatico aneddoto - decisamente per boomer - che una volta sentii raccontare da Giancarlo Fusco, un importante giornalista della seconda metà del Novecento, noto, oltre che per le capacità di cronista, anche per il suo amore per la buona tavola. Da giovane faceva il segretario di un importante grande attore, Ermete Zacconi. Un giorno chiacchierando con Zacconi e gli disse che un altro importante primattore aveva dichiarato di essere comunista. Al che Zacconi chiosò: "Comunista? Ma se la sua voce non si sente oltre la terza fila di poltrone!". 

Tornando a noi. Un giorno, Stefano Lescovelli, simpatico e bravo attore prematuramente scomparso, d'improvviso mi pose sotto un simpatico interrogatorio: "Giovanotto, se vuoi dirti attore devi rispondere a queste tre domande: 1) si mangia prima o dopo lo spettacolo, 2) che cos'è la decade, 3) di che colore è il bonifico?". Ero un po' perplesso, ma risposi, come si fa per rispetto verso i più anziani: "Si mangia dopo lo spettacolo, la decade sono dieci giorni di paga e si prende ogni dieci giorni... ma il bonifico... cos'è?". Già, perché almeno noi, un tempo, non avevamo l'abitudine di parlare per essere ascoltati, ai miei tempi non erano gli adulti a dover stare in silenzio per ascoltare cosa avevano da dire i giovani, ma i giovani a tacere, aprire le orecchie e apprendere da chi ne sapeva più di loro. Da troppo tempo abbiamo invertito le funzioni... e sappiamo tutti dove ci ritroviamo. 
Dunque, Stefano mi spiegò una cosa che non avrei mai potuto sapere perché davvero era di un'altra epoca: "il bonifico era un tagliando che la Compagnia dava a ciascun scritturato, che dovevi presentare alla biglietteria dei treni e con quello avevi lo sconto dato che viaggiavi per lavoro, il colore del bonifico era verde". 
Era tutto ovviamente un gioco, ma le tre domande mi spiegò, i vecchi attori le facevano davvero per verificare da quanto tempo tu fossi nel mestiere. A quel tempo il mestiere era molto fatto di fame, e gli attori andavano sul pratico, nelle loro bislacche domande c'era una capacità di sintesi che in qualche modo escludeva completamente la teoria per stare sulla pratica. Era profondamente "artigianato". Tutto questo prima che arrivasse Stanislavskji e che il suo verbo si diffondesse. 

Il gergo degli attori era ed è pieno di parole e frasi originali e divertenti, come: tinca, telefonare la battuta, impallato, spallarsi, andar di rimessa, birignao, fotta, fare burletta, soffiati, vuoto di scena e pieno di scena. 
Quella da cui però sono sempre stato affascinato è la realmente sintetica: TUTTA, FORTE E CHIARA! 

Tutta forte e chiara è il primo e più semplice consiglio che un anziano forniva a un giovane, e si riferisce al modo di dire la parte. 
Hai provato, sei arrivato a un buon risultato, ora devi andare in scena e hai ovviamente timore. Beh, non preoccuparti di mille cose, pensa a una cosa essenziale: di' la tua parte tutta, forte e chiara. 

Non è difficile da comprendere.
Dilla TUTTA, che evidentemente significa: abbi una perfetta memoria e non dimenticare nessuna battuta.
Dilla FORTE, in pratica: figliolo, fatti sentire fino all'ultima fila di poltrone e anche oltre.
CHIARA! E questo, a mio immodesto avviso, è il punto realmente interessante. Cosa vorrà dire CHIARA? 
Certo, per "chiara" si intende un banale "fatti capire", scandisci bene, metti timbro in tutte le parole, ecc. Ma ho il sospetto che nel sapiente artigianato dei nostri avi si nascondesse qualcosa di più. 

Io penso che per "chiara" si intenda non solo fai capire le parole, ma fai capire l'intenzione che c'è dietro, fai capire il senso che ti ha portato a decidere di dirla in un certo modo piuttosto che in un altro. Insomma, non serve solo che le parole siano intellegibili ma che sia limpido anche ciò che le determina in quel momento scenico e che realmente le riempie di senso. 
Denùdati, fammi capire davvero chi sei, chi è il personaggio che stai rappresentando, fammi capire i suoi pensieri, ed anche il senso dei suoi silenzi, lasciati attraversare dalla nettezza della scena e del tuo personaggio, lascialo vivere in te perché lo si possa "chiaramente" vedere vivere. 
Ed ecco che "chiara" non è più solo riferito alle parole, ma a te stesso interprete e allo sforzo che devi metterci per arrivare al risultato, al pubblico, al compimento effettivo dello spettacolo, al valore stesso del Teatro. 

Gli antichi non scrivevano teorie, tranne qualche primattore che raccoglieva le sue memorie e le proprie riflessioni sulla professione, non compilavano libri, ma per il resto tutto era artigianato, un modo sapiente di recepire il mestiere e di passarlo, capendosi su ciò che non poteva essere spiegato davvero a parole, intuendosi reciprocamente per ciò che le parole non potevano spiegare se non che con grandi e complicati giri. 

Gli artigiani fanno, non teorizzano. E deve essere per questo che quel "chiara" mi ha sempre affascinato: c'è un mondo, in una sola parola, che in verità solo chi è salito sul palcoscenico può comprendere, e non importa se non riuscirà mai a spiegarlo a parole, quel che conta è che salga sul palcoscenico e agisca, che sia attore, nella maniera più chiara che gli sia possibile.  

martedì 17 giugno 2025

ASTENSIONISMO, CHE CI SIA UNA RAGIONE TERRA TERRA?

 Lasciamo perdere il Referendum abrogativo dell'8 - 9 giugno, ché lì il quorum ha un senso costituzionale preciso, ragionato e a mio parere (che poco conta) più che corretto, per cui l'astensione ha un chiaro valore come modo di esprimere la propria opinione, per il resto delle consultazioni elettorali ho sempre sostenuto e continuo a sostenere che chi si astiene ha sempre torto. E non mi toglierete questo pensiero.
Nel resto delle tornate elettorali il quorum non c'è, dunque chi non sceglie non ha poi moralmente alcun diritto di recriminare o lamentarsi, anche se gli è assolutamente consentito dalla Costituzione... e dalla nostra pazienza. La verità è che per la democrazia, per essere veri democratici ci vuole un fegato di ferro, per ingoiare, digerire, filtrare tutte le sciocchezze che senti dagli altri, ma che gli altri hanno tutto il diritto di pensare e dire, anche perché è molto probabile che loro penseranno lo stesso di te. 

Ma al netto di tutto questo, è fin troppo evidente che da almeno venti anni a questa parte la partecipazione popolare alle tornate elettorali di vario ordine e grado vada scemando in modo preoccupante. Sul perché troverete certamente spiegazioni e teorie di alto valore scientifico, io ho una mia idea molto terra terra. 

La verità, secondo me, è che l'italiano ha sempre avuto una sorta di fastidio verso la politica, pur essendo uno degli animali più politici del globo. Il fatto è che egli vede la politica, e l'elezione del politico, come una delega, ma non in senso nobile, cioè: "Tu mi rappresenti", ma in senso pratico, talvolta eccessivamente pratico, poiché quando vota l'italiano medio vuol dire: "pensaci tu a 'sta cosa, io non ci voglio pensare ho altro da fare, e vedi di far funzionare il tutto. Insomma, fai bene e nun me scuccià!". 
Ora, tutto andava bene finché il danaro c'era e circolava, ma con l'ingresso nella UE, lo sappiamo, e con l'arrivo dell'euro, le cose si sono complicate e molto, per cui il politico, non trovandosi più in mano le disponibilità economiche di prima, non ha potuto fare quel che ci si aspettava da lui. Inoltre, impoverendosi la classe media, lo "stipendio del politico" al quale nessuno nel periodo della Lira faceva davvero caso, è diventato un parametro scatenante rabbia (sia pur scioccamente, ma così è). Ed ecco che le persone che delegavano han cominciato a vedere il politico come uno che non risolve - ma che senza denari non si cantano messe, a pochi viene in testa! - e che rispetto a me povero impiegato si prende pure un sacco di soldi (come se 5000 leuri al mese, che questo è l'effettivo stipendio di un parlamentare, fossero chissà quale cifra). 
Dunque: che ci vado a fare a votare gente che non mi serve e campa sulle mie spalle? (ditemi che non avete mai sentito questo tipo di ragionamento). 

Ma c'è una ragione ancora più profonda e legata sempre al sistema economico in cui ci siamo infognati: molte persone semplici, ma anche quelle non semplici (sic), andavano a votare perché conoscevano personalmente un politico, il quale era in grado di trovare un posto di lavoro al figlio, di velocizzare una pratica per l'invalidità o la pensione, farti avere il trasferimento più vicino a casa... Quello che insomma qualche moralista alla Alberto Sordi definiva come voto di scambio strettamente legato alla preferenza. Intere famiglie votavano per Tizio o Caio perché gli risolvevano i problemi. 
Oggi Tizio o Caio non hanno più potere, non possono più alzare il telefono e fare assumere il figlio del sig. Giovanni alle Poste, o di fare trasferire il carabiNIere Stelluti da Martina Franca a Rovereto, paese della sua famiglia. E questo sempre perché, per i motivi economici suddetti, hanno le mani legate. Tutti, bene o male, avevano un politico di riferimento, uno cui potevano rivolgersi per un problema, problema che quasi sempre poteva essere risolto in modo lecito, a differenza dell'idea che la narrazione ha diffuso e inculcato nella testa dei cittadini. 

Si potrà dire che oggi la politica, avendo perso la sua parte di "voto di scambio" sia più pura. Può darsi, ma quanto sarà mai pura una politica una politica in cui comunque sia il rappresentante dei cittadini ha le mani legate? 

Io trovo che votare sia sempre meglio, che gli assenti hanno sempre torto (tranne nell'abrogativo, come detto all'inizio), ma invece di stracciarsi le vesti dopo ogni elezione sulla non partecipazione al voto, proponendosi di far qualcosa per riportare gli italiani alle urne, chiediamoci davvero quali siano le ragioni profonde dell'astensione. Il malcontento? D'accordo, ma questo malcontento da dove nasce?

Capisco che la mia sia una spiegazione molto terra terra, ma magari ha un qualche senso. Chissà... 

venerdì 6 giugno 2025

SOVVEZIONI AL CINEMA, UN PRINCIPIO DA RIBALTARE

 La polemica sui soldi che lo Stato italiano destina alle produzioni cinematografiche non accenna a diminuire, come è nella logica delle cose quando un dibattito perde il suo valore di riflessione collettiva e diviene solo strumento di contrapposizione politica. 

L'attore Elio Germano



Da un lato, lo sappiamo, c'è il Governo del Paese che afferma di non poter sperperare i soldi dei cittadini, dall'altro gli uomini del Cinema che affermano che il governo fascista vuole togliere i soldi alla Cultura. 
Entrambi i modi di porre la questione sono a mio parere errati: se da un lato non si può valutare un'opera dell'ingegno sulla base dello sbiglettamento, dall'altro non si deve pretendere un contributo, a volte molto ma molto sostanzioso, sulla fiducia. 

Conosciamo i nomi di artisti che nel corso della Storia sono stati considerati meno di nulla per poi essere valutati come geni che producevano capolavori. da Van Gogh a Pirandello, da Wolfe a Manet, fino a qualcuno che ebbe il coraggio di affermare che Caravaggio aveva distrutto la pittura. 
Dunque, valutare un'opera come di scarso valore perché l'hanno vista i dodici non è un criterio valido. "I cancelli del cielo" di Michael Cimino è stato uno dei più grandi insuccessi della storia del cinema, ma dopo ci siamo accorti che era un film superlativo. Perché il valore artistico delle opere lo decide, sul serio, solo il tempo e la loro resistenza nel tempo. 

Ma dall'altro lato, parlare di Governo che non vuole sovvenzionare la Cultura è una bufala. Per un motivo simile al precedente, perché se un Governo vuole o no sostenere la Cultura non lo si decide sulla base della cifra che mette a disposizione. Un Governo, essendo un organo politico, deve fare azioni politiche, creare condizioni e criteri perché le attività culturali (non "la cultura" che è definizione molto generica) possano svilupparsi, perché i lavoratori dello Spettacolo abbiano occasioni di lavoro e siano tutelati, perché le produzioni possano nascere e andare in porto. Ed è possibile che tutto questo venga fatto con una spesa minima o addirittura senza spesa. E se così fosse, se arrivasse un governante che con una brillante idea (che io in questo momento non ho, mentre ne ho sul mio specifico, il Teatro, non so se brillanti ma ne ho), se arrivasse un parlamentare e avesse quella illuminazione che permette alle produzioni di agire pienamente con una minima spesa per lo Stato, sarebbe un male, chi avrebbe il coraggio di dire, in un Paese dove si creano le condizioni per il lavoro che questo sarebbe un male solo perché non arrivano tutti i soldi che noi vorremmo? 

Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni


Come si può vedere, i due modi di affrontare il problema non sono corretti e avranno il solo risultato di perpetuare la ormai noiosa diatriba. 
Cosa dunque andrebbe fatto? Con franchezza non lo so, anche perché come dicevo, il mio specifico è il Teatro e non il Cinema, ma una perplessità in testa ce l'ho e da parecchio tempo. 
La sovvenzione teatrale esiste, ed è sacrosanta come qui ho potuto illustrare, non serve a tutelare il padrone ma il lavoratore, soprattutto quello di qualità (e per qualità intendo professionale).Ora, la sovvenzione teatrale viene elargita dopo che lo spettacolo è stato prodotto ed ha circuitato nei teatri. Per accedervi, come tanti amici Amministratori di Compagnia potrebbero raccontarvi, ci sono pacchi di moduli da riempire a volte anche con richieste folli, e questo anche a fronte di piani di produzione preventivi che vengono richiesti periodicamente, anch'essi con informazioni fuori da qualsiasi logica. Ma in pratica, i soldi si hanno dopo, ribadisco dopo, che il lavoro è stato prodotto ed è arrivato al pubblico. 
Quello che con il Cinema non torna, è che i soldi vengono assegnati prima, prima e sulla base di cosa? Di un progetto. E cosa sarebbe in realtà "un progetto"? Non vorrei dispiacervi, ma... un foglio di carta. Sì un foglio di carta (più o meno lungo), sul quale è scritto quel che si vorrebbe fare, cosa racconta la storia, chi sono i personaggi, gli interpreti... 
Mi pare evidente che questo sistema può presentare tante, troppo incrinature, di diverso genere, da quelle più facilmente immaginabili, alle più sottili e sotterranee. 
Poiché nessuno sa, sulla carta, come sarà quel film. E se tutte le inquadrature dovessero venire male, e se la storia fosse meno efficace di quanto si immagina, e se...?

E qui va inserito un altro aspetto: cos'è l'Arte e in conseguenza la Cultura. 
Per prima cosa: chi decide cosa è cosa non è Cultura. 
Faccio sempre questo esempio, e mi pare funzioni: se Cultura fosse il contenuto, allora la filodrammatica parrocchiale che mette in scena Medea, varrebbe più della farsa messa in scena da Peppino De Filippo. Quindi, può avere un senso giudicare sulla base di "un progetto"? No, perché quella storia potrebbe essere realizzata malissimo, e se anche il regista o gli interpreti fossero di comprovata fama e abilità, potrebbero "toppare" il film. Sappiamo bene che è successo! 
Non solo, ma siamo proprio certi che le storie che raccontiamo sono nuove, originali, o alla fin fine raccontiamo sempre le stesse dieci storie, che mutano solo in luogo e tempo?

E l'Arte, cos'è? Con franchezza non lo so, o meglio quel che so è troppo lungo e complicato da spiegarlo adesso. Di sicuro, l'Arte è una cosa che si vede dopo, nel tempo. Nel senso che quel che facciamo con il nostro mestiere è artigianato, è lavoro manuale (o intellettuale, il concetto non cambia) che si replica ogni giorno con perizia, poi un giorno qualcosa ci sfugge dalla mani e nel tempo gli altri, non noi esecutori, ma gli altri, si accorgono che è Arte. Un tal Francesco I chiese a Benvenuto Cellini di fargli una saliera, e il Cellini eseguì il compito come un bravo artigiano qualsiasi, una volta terminata ci si accorse che si era di fronte a un capolavoro. 

E potremmo continuare con gli esempi, ma in sintesi, io penso che la Cultura sia "il saper fare", la capacità di avere quotidianamente il mestiere tra le mani e svolgere il proprio compito, poi un giorno, senza che ce ne accorgiamo, ci sfugge il capolavoro. Forse. Chissà... 

Dunque, come si componga la diatriba Cinema-Governo non lo so, mi chiedo solo per quale motivo non si debbano pensare per il Cinema tempi e modi di sostegno economico simili a quelli del Teatro: fate, poi rendicontate, poi valutiamo ed elargiamo. Non è un sistema perfetto, ve lo dico subito, ma almeno ci sarebbe più trasparenza e meno discussioni. Noiose discussioni.    

lunedì 12 maggio 2025

L'ABBAGLIO, ROVINARE UN BEL FILM PER UNA BATTUTA




Dato che imperversano le polemiche sul cinema italiano e le sue crisi, perenni crisi se vado alle mie più lontane memorie, ci siam visti un atteso film proprio del cinema italiano: "L'abbaglio" di Roberto Andò. 
Vista la bella prova con "La stranezza" c'erano tutti i presupposti per un'ennesimo buon film. 
E così è stato... fino agli ultimi trenta secondi! 

Sintetizzando, "L'abbaglio" è un bel film rovinato dalla battuta finale!
Io comunque vi consiglio vivamente di vederlo perché, innanzi tutto, Ficarra e Picone sono bravissimi, per certi versi ancor più bravi che ne La stranezza dove comunque mantenevano una vena comica che qui è totalmente espulsa.
Su Servillo sorvolo: non lo amo, non l'ho mai amato, non mi soddisfa mai, trovo che sia didascalico, non credibile, sempre retorico e professorale, perpetuamente intento a trasmettere un messaggio morale più che a recitare. Ha il pieno difetto degli attori/registi legati a doppio filo alla sinistra italiana, attuale e storica: l'intelletto sopravanza il mestiere, mortificando così, sempre, l'espressione artistica. 
La sceneggiatura è azzeccatissima, la storia intensa, con soluzioni e spunti decisamente interessanti e divertenti (non nel senso che si ride!). In alcuni momenti non nascondo di essermi commosso: il sacrificio del ragazzino sulla rocca, per esempio, è un bel colpo; bei costumi, belle scene - anche se la parte computerizzata meritava forse un po' più di cura - e splendida la scelta dei luoghi che esalta una Sicilia, dura, antica e magnifica. 

Ma allora, cos'è che rovina il film?
A bene vedere la storia ricalca quella di un capolavoro del cinema non solo italiano: "La grande guerra", di Mario Monicelli con Gassman e Sordi, dove c'è il riscatto dell'italiano vigliacchetto e truffaldino, debole e pauroso che alla fin fine può, a suo modo, rivelarsi un eroe. 



Un film straordinario, La grande guerra, che essendo stato realizzato una ventina scarsa di anni dopo il fascismo, porta in sé uno straordinario messaggio: contro il virilismo fascista, il debole, il vigliacco ha pieno diritto di essere difeso e considerato, poiché da tutti, dai comportamenti più impensabili e non omologati possono venire delle sorprese. 

Anche nel caso de "L'abbaglio" la storia procede sorprendendoci, ma simpaticamente, i due furfantelli alla fine non solo riprendono la loro strada di piccoli lestofanti, ma fanno, se così possiamo dire, addirittura carriera, mettendo su una bellissima casa di tolleranza con annessa bisca clandestina. 
Il gesto che hanno compiuto è stato davvero eroico e rischioso, ci si aspetta verso di loro un sorriso di comprensione e comunque di ringraziamento. 

Ed invece, eccolo il moralismo che ha smontato e triturato tante speranze e molte possibilità del nostro Paese dal dopoguerra ad oggi, quando una certa parte politica decise che l'Italia era un paesucolo di lestofanti, vigliacchetti e imbroglioncelli, per cui il protagonista, il colonnello Orsini, che tanto realmente ha fatto per l'Unità d'Italia, decide che le loro fatiche, tutta l'impresa dei Mille, è stata inutile poiché questa penisola, Nazione di imbroglioni era e Nazione di imbroglioni è rimasta. 

Dov'è il problema? Il problema è che pure in questo caso, l'intellettualizzazione si sovrappone a uno spontaneo flusso narrativo: non si lascia che la storia proceda per dove essa vuol condurre, ma la si forza a una soluzione, a un tema, a una morale che dopo tanta bellezza, va sottolineato, ti fa cascare le braccia. Hai fatto tutto questo, costruito questa sceneggiatura, questo film, solo per dirci che alla fine che si è combattuto per nulla, per avere lo stesso paese di gattopardi? Beh, caro Andò: banale, scontato, visto e rivisto, e ne siamo anche stanchi. 
Forse questo Paese merita qualcosa di più della solita denigrazione, forse merita il vostro talento che sa condurre ottimamente un film, film che non merita di perdersi per voler dire la noiosa battuta finale. 



lunedì 28 aprile 2025

MEGALOPOLIS di F. F. COPPOLA, UN FILM BRUTTO MA APPREZZABILE!


 


Ieri sera ho visto Megalopolis, l'ultimo film di Francis Ford Coppola. Grande regista. Dovrebbe essere una garanzia. Invece il film è dannatamente brutto, brutto e pretenzioso che tutto ciò che riesce a mettere in scena è il provincialismo americano. 

I titoli di testa la indicano come "favola di F. F. Coppola", e tale è, vista l'ambientazione pseudo antica Roma, i nomi dei personaggi: Cesare Catilina, Cuius Crasso e roba del genere. Costumi e truccature da richiamare la città eterna, e poi sparse come il granone, a iosa, citazioni di Marco Aurelio, Shakespeare a gogò (a un certo punto il protagonista ci declama, non si capisce il perché l'Essere o non essere dell'Amleto... boh!), battute recitate in latino, cast stellare, dispendio di luci e costumi e scene e montaggio acrobatico, storia più banale che sconclusionata, gli USA come Roma conosceranno la stessa decadenza perché i suoi cittadini non credono più nel loro Stato, un po' di morale, un po' di lesbo, qualche nero piazzato ad hoc... Il tutto per due ore abbondanti di noia, noia pura, nelle quali un americano mostra come sia sotto sotto sempre abitato da quel senso di inferiorità che gli comporta l'essere nato in un Paese che non ha una storia antica. 

Insomma, quel Coppola che ci ha regalato - lo sappiamo tutti - capolavori assoluti come Dracula, la saga del Padrino, Apocalypse now, L'uomo della pioggia, il delizioso Tucker - un uomo e il suo sogno, il fantastico Cotton Club, e tanti altri bei film, stavolta ha proprio "lisciato". Succede, anche ai più grandi capita di far bruciare la torta, mancare il buco della ciambella, di inciampare in un brutto film che, a dirla tutta, non è nemmeno recitato benissimo. 

Un pregio, a mio parere, va però rilevato: Coppola il film lo ha scritto, diretto, ma soprattutto se lo è prodotto. A differenza di certi simpatici registi nostrani che pretendono di far capolavoro con soldi altrui o, peggio ancora, con soldi dello Stato, il vecchio Francis, potendolo ovviamente ormai permettere, rischia il suo per il suo. E fa più che bene. Se il film è brutto, questo aspetto è tutto da apprezzare. 
In fondo, quante volte, nei nostri sogni, abbiamo pensato: "Se vinco al Superenalotto mi tolgo questo sfizio", chi con l'arte, chi con i viaggi, chi con la casa, ecc? 
Io, per esempio, avessi la possibilità scommetterei sul nostro Giardino dei ciliegi in napoletano, e allora è più che giusto che Coppola con i suoi soldi faccia quel che vuole. I suoi, non dei contribuenti.





domenica 6 aprile 2025

GOLDONI, ROSSINI: COME TI RIVITALIZZO IL TEATRO

Rossini in un ritratto di M. F. C. Mayer


Goldoni in un ritratto di A. Longhi

La decisione di Gioachino Rossini (1792 – 1868) di scrivere le “fioriture” e di non lasciarle più alle improvvisazioni dei cantanti, mi chiama alla mente, e mi pare anche un facile collegamento, Carlo Goldoni (1707 – 1793) e la sua altrettanto determinata volontà di scrivere “tutto il testo”, scavalcando definitivamente il mondo della Commedia dell’Arte. 

Se però metto insieme i due elementi, da un lato il raffinato lavoro di collaborazione che Goldoni fa con i suoi attori prima di arrivare alla stesura definitiva del testo, dall’altro la profonda conoscenza che Rossini ha del canto per esser stato egli stesso cantante, figlio di cantante, marito di cantante, ed avere vissuto, anch’egli come Goldoni, gomito a gomito con i suoi interpreti, mi viene da pensare non ad una azione di sopraffazione dell’autore sugli interpreti, ma alla volontà di determinare, in ogni sua punto, la drammaturgia, letteraria o musicale che sia, donandole finalmente una nuova dignità, una dignità assoluta.

In questa azione, che mi appare sempre più effettivamente comune ai due, viene a ricrearsi, a rideterminarsi una nuova via del teatro, di prosa o musicale, una nuova letteratura che chiedendo agli interpreti un completo ridisegnarsi nella loro funzione, ne rimette in circolo, attivo e vitale, la fondamentale peculiarità. 

Sia Goldoni che Rossini, infatti, va rilevato, agiscono in un momento in cui le arti precipue di cantanti e attori hanno preso un così “ampio spazio” da divenire il manierismo di loro stesse (quasi una “decadenza”). Potremmo dunque affermare senza tema di smentita che entrambi gli autori focalizzano la loro azione sull’effetto finale ed unico del loro lavoro: la messa in scena.  


mercoledì 22 gennaio 2025

UN MIRACOLO CHIAMATO EDUARDO


Dettaglio scenografia di Eugenio Siniscalchi
"Nzerra chella porta" esercitazione alunni 
V T Sperimentale Teatro 2024/25
Liceo Artistico Sabatini-Menna Salerno

 











Oggi, mentre guardavo i miei ragazzi arrampicarsi con le loro esili braccia su quella immensa montagna che è Eduardo De Filippo e il suo teatro, a un certo punto mi sono commosso. Loro mi hanno commosso, per la dedizione che ci hanno messo, dopo giorni e giorni di battaglia, improperi, urli, insistenze, giorni e giorni in cui ho tirato la carretta, trascinandomi dietro quella banda di mezzi debosciati che sono i giovani di oggi (definitemi pure boomer!), vedevo che avevano raggiunto un buon risultato, al punto che ho derogato a una mia imprescindibile regola: gli ho detto che erano stati bravi. 
In teatro, mai dire a degli allievi che sono bravi, potrebbero sedersi sugli allori, mentre devono apprendere un insegnamento di vita: che non c’è mai limite al meglio! Infatti, dopo il complimento, ho aggiunto: “Attenzione, non è che adesso pensate ‘lo so fare’, potete solo pensare ‘l’ho fatto e mi è venuto bene, ma lo devo ancora rifare, e poi rifare, e devo provare a farlo ancora meglio’. 
Ma c’è un altro motivo per cui mi sono commosso, e che ho condiviso con loro: all’improvviso, mentre li guardavo ho capito una cosa, un qualcosa che non mi spiegavo: perché amo così tanto Eduardo? È per il dialetto, per la vicinanza linguistica, per il divertimento che mi dà, per la commozione che mi scuote, per la bravura d’attore, per la bellezza delle commedie, perché ho conosciuto e lavorato con attori che hanno lavorato con lui e mi hanno raccontato mille cose, perché mi affascina, per la malinconia verso un tempo in cui avrei amato essere? Certo, per tutto questo ma anche per quel che oggi ho capito. 
Perché il teatro, sapete, è così, ti viene detta, magari insegnata una cosa, e tu la capisci davvero, ne prendi coscienza magari anni e anni dopo. Il mio vecchio Maestro, Mario Ferrero, mi disse una certa cosa in Accademia quando avevo 22 anni, la capii una sera d’improvviso mentre ero sul palco a recitare “Uno sguardo dal ponte” di A. Miller e di anni ne avevo 36. Tardo io? No, è che il sapere e il prendere coscienza sono cose molto, ma molto diverse. A un tratto, mentre recitavo, fui attraversato da una illuminazione e pensai: “Ecco cosa voleva dire Mario quando diceva quella cosa!”. 

Totale scenografia

Ebbene, oggi pomeriggio, mentre quelle esili braccia, dicevo, si arrampicavano sull’Everest, ed a mani nude, ho sentito chiaramente quello che nessun autore mi ha mai comunicato: la scrittura di Eduardo De Filippo trasuda tutto l’amore per il teatro che egli poteva avere, ma la cosa miracolosa, realmente miracolosa, è che trasuda tutto l’amore che noi abbiamo per il Teatro, in quelle parole, in quelle scene, in quella azione sulla scena non c’è il suo amore per il Teatro, ma l’amore che tutti i teatranti del mondo hanno per il loro lavoro, per il loro mondo, e la loro vita, la loro scelta di vita; io guardavo i miei ragazzi sulla scena e vedevo riflesso su quelle tavole il mio stesso amore per l’arte che alla loro stessa età ho voluto abbracciare. 
È questo il miracolo: Eduardo scrive il mio amore per il mio lavoro. E mi è stato chiaro che tutti coloro che lo hanno amato e lo amano, lo amano per questo motivo, anche se non lo sanno e forse mai lo sapranno ma non importa. 
E non importa se siamo divenuti famosi come lui o insignificanti, conta l’amore che ci mettiamo ogni giorno, quel che abbiamo imparato da chi è passato prima di noi, e quel che passeremo a chi vorrà venire dopo di noi. Il resto non è silenzio, ma una voce che non smetterà mai di cantare finché l’uomo avrà fiato su questa terra: è il Teatro. 





giovedì 19 dicembre 2024

CULTURA, PERCHE' LA DESTRA HA SBAGLIATO TUTTO




Un importante politico democristiano una sera mi disse: "Il mio partito ha commesso un unico errore: quello di lasciare la Cultura nelle mani dei comunisti". 
Quanto è importante la Cultura? Tantissimo, è una sorta di comizio perpetuo che in maniera subliminale convince, condiziona, trasforma il pensiero e quindi il comportamento delle persone. Averne in mano le redini significa gestire davvero un grande potere. 
Per intenderci praticamente: potrete fare mille discorsi a scuola sui danni delle droghe o sulla violenza di genere e non riuscirete a "bucare" l'animo di un solo allievo; proiettate un film, che so, "Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino", oppure "La sposa bambina" o l'ultimo bel film della Cortellesi "C'è ancora domani", e vedrete che l'impatto emotivo cambierà il modo di pensare di tanti spettatori.

Questo, la Sinistra lo ha capito già da quando non era ancora "la sinistra". La destra, invece, non solo ha sbagliato completamente strada, ma non ha mai nemmeno voluto chiedersi se doveva cambiare rotta. Pare anzi che sia sempre mancato, al suo interno, un'effettiva analisi della situazione. Chiariamo: parliamo del periodo che va dal dopoguerra ad oggi, ciò che c'è stato prima è cristallizzato nella Storia e porta il marchio del potere, sabaudo prima, fascista poi, perché si sa, chi ha il potere detta legge, gestisce e non teme il confronto. 
Nel dopoguerra, invece, è successa una cosa diversa e forse nuova: la Cultura è finita nelle mani di chi non aveva il potere, per lo meno non il potere ufficiale.
Ora, sarà un mio bislacco pensiero, ma dalla fine della II Guerra mondiale al 1992 circa, in Italia ha governato la Democrazia Cristiana, e per me la DC non era destra, e non era nemmeno centro, era già sinistra, sia pur "moderata", con tutti i distinguo e le sfumature che potrebbero essere rilevate. 
Il problema è che, impadronendosi il Partito Comunista, cioè l'opposizione, del mondo della Cultura, la DC, in quanto potere, diveniva l'altra sponda, ossia "la destra". Eppure, per chi lo ricorda, a destra dei democristiani c'era ancora tanto altro mondo, dai liberali fino ai monarchici e ai fascisti impenitenti. Per gli intellettuali, però, per gli artisti - non sempre gli artisti sono intellettuali, anzi spesso non lo sono, e questo non è un demerito ma un pregio - era quasi naturale schierarsi a sinistra, con il PCI innanzi tutto o con i Socialisti, per il semplice motivo che un artista si sente più a suo agio tra gli oppositori al potere, anche se molti di loro erano e restano artisticamente di destra pur senza saperlo. 

L'esplosione dell'egemonia culturale di sinistra l'abbiamo, senza ombra di dubbio, dal '68 in poi. 
Fino ad allora, tanti artisti, pur dichiarandosi pubblicamente comunisti o socialisti, restavano legati alle più solide forme della professione, al mestiere! Per stare in ambito teatral-cinematografico, sappiamo per esempio che comunisti si dichiaravano Visconti, De Sica, e socialisti Gassman o Strehler. L'appartenenza politica, però, non metteva in discussione "il mestiere". Storie come "Ladri di biciclette", "Umberto D", "Miracolo a Milano", o ancora "La terra trema", "Rocco e i suoi fratelli", possono ancor oggi essere considerate storie di sinistra, storie che mettevano crudamente in piazza quelli che sarebbero poi stati identificati come "i panni sporchi da lavare in famiglia", battuta, guarda caso, attribuita allo storico leader democristiano Andreotti, ma che poi ultimamente è stato rivelato che Andreotti non l'ha mai pronunciata.
Dal '68 in poi gli argini si rompono, irrompe nel campo dell'arte il suo più grande nemico: l'intellettualismo. Tutto si può fare, tutto si può portare in scena o sullo schermo, o sulla tela purché sia supportato da quello che all'epoca di chiamava "il messaggio", il concetto forte, talmente forte da schiacciare ogni altra cosa, in particolare "il mestiere". Abbiamo così passato un periodo, tremendo e lungo, troppo lungo, in cui si affermò senza alcun pudore che chiunque poteva salire in palcoscenico e recitare o avere una qualsiasi altra espressione artistica anche senza conoscere la basi tecniche del mestiere, poiché ciò che contava era "il concetto", la "liberazione del proprio sé", l'espressione "dell'interiorità", e per farlo non era nacessario conoscere "il mestiere". 
Stabilito il principio che io definirei del "famo come ce pare" e avendo in mano quasi tutta l'intellighenzia, il lavoro propagandistico è stato facilissimo, con giornali e intellettuali che esaltavano lo sciamannato o la stracciacula di turno sostenendolo con acrobatiche e talvolta perverse elucubrazioni sulla validità e necessità della ardita prova artistica, elucubrazionei che imponevano un principio classista e dunque fascista: "non è che non ti è piaciuto, è che non ti è piaciuto perché non hai capito, adesso te lo spiego io", meccanismo che ovviamente comporta che chi "spiega" si piazzi, anzi, auto-piazzi su un piedistallo facendoti, così, sentire inferiore  meccaniso che, inoltre, una volta instaurato, comporta la caduta della semplice ipotesi: "Va bene, grazie, ho capito, ma non mi piace lo stesso".
L'espressione più semplice e libera dello spettatore, quella che in realtà ha sempre mandato avanti l'arte, cioè il banalissimo piacere (mi piace un quadro, lo compro, una musica e l'ascolto...), veniva così ad essere cancellata. 

Poteva bastare come danno? No. 
Perché una volta mortificata una grossa fetta di pubblico, questo ha trovato riparo nelle nascenti tv private, le tv commerciali, in particolare nelle tv berlusconiane, le quali, dovendo, comprensibilmente, fidelizzare lo spettatore, hanno abbassato il livello, hanno portato la "comunicazione artistica" lì dove la mitica "casalinga di Voghera" o lo storico "bracciante lucano" si sentivano rassicurati. 
Il danno prodotto da quella propaganda "sinistra" è stato così doppio: da un lato si sono minate le basi di un prezioso e secolare artigianato, dall'altro si ottenuta l'auto-esclusione di una grossa fetta di pubblico, pubblico che in precedenza si sentiva sempre e comunque coinvolto, al quale il "mestiere" comunicava comunque, limitandosi alla espressione artistica che poi ciascuno avrebbe "letto" secondo il proprio livello culturale senza mortificazione di alcuno. Per intenderci, i Maigret di Gino Cervi, o i Karamazov di Bolchi li vedevano tutti, dalla portiera al professore universitario. 

Ma in tutto questo, la destra, la neonascente destra liberale che da Berlusconi prende le mosse, cosa ha fatto? 
Ci è già chiaro che al Cavaliere questa situazione faceva gioco, è invece a tutti quelli che gli stavano intorno e si definivano "intellettuali di destra" che doveva suonar stonata. Ed è lì che tutti hanno sbagliato strada. 
Per prima cosa il grosso errore, anche in periodo sessantottino, lo fecero proprio gli artisti "di mestiere", i quali avrebbero dovuto osteggiare gli "artigiani incompetenti", e invece lasciarono correre, a volte macerandosi tra le quinte per i giochetti di potere che dietro certi successi si nascondevano, e pensando sempre esclusivamente alla propria espressione artistica. Che però, con questo ribaltamento di valori, veniva spesso ad essere mortificata: Mario Ferrero ebbe una volta a raccontarmi che una volta Visconti, si era dopo il 68, ebbe a dirgli: "Mario, sai che sono comunista, ma lavoravo di più quando eravamo in dittatura democristiana che non adesso che i compagni hanno preso il largo". Non fatico a credere alle parole di Ferrero, perché cose simili mi son state riferite anche da altri attori e registi che purtroppo non ci sono più. 

Fatte salve, però, le responsabilità dei teatranti, dove "l'intellighenzia" di destra ha davvero sbagliato tutto e da quel che vediamo continua a sbagliare? 



In tutto il periodo berlusconiano, si è andati avanti cambiando semplicemente gli uomini: arrivava un governo di sinistra, metteva i suoi nei posti di potere, arrivava un governo di destra, sostituiva i precedenti, e così via. Il risultato è stato nullo, poiché il sistema di potere che quella sinistra ha costruito nei decenni, non è mai venuto ad essere intaccato. Dunque, quando la destra capirà che questa non può e non deve più essere la strada? Sospetto mai, ma non vogliamo perdere le speranze di una sana alternanza e di una espressione artistica la più ampia e libera possibile. 

Orbene, se la sinistra, da un certo momento in poi, come detto, ha prediletto l'intellettualizzazione a scapito della sapienza artigianale, la destra, mi pare evidente, deve occuparsi di proteggere "il mestiere", di preservare l'artigianato, quella sana tradizione che non può mai essere intesa come mera conservazione, ma come capacità realizzativa basata sul passaggio di testimone e sulla naturale trasformazione nel tempo, che non perde mai di vista le proprie radici, ma è consapevole che "tradizione", "tradurre", "tradire" hanno tutte la stessa radice etimologica. 
La destra - porto ad esempio il mio campo, il teatro - se veramente volesse fare una battaglia culturale e marcare un suo territorio, dovrebbe proteggere i grandi attori, gli attori e i registi del grande mestiere, le scuole serie di recitazione, le accademie di ogni espressione artistica, dovrebbe, tanto per capirci, "caricarsi" un Gabriele Lavia, un Rigillo, anche se Lavia si dovesse dichiarare un giorno sì e uno pure, di sinistra. 

Gabriele Lavia in Re Lear - foto T. Le Pera


E' solo difendendo e sostenendo quell'artigianato che ha fatto grande il Paese, che lo ha costruito e fatto conoscere nel mondo, solo proteggendo "chi sa fare", che la destra troverà una via per opporsi alle "masturbazioni mentali" di sinistra. 
Spero che ora sia chiaro perché ritengo molti artisti inconsapevolmente "di destra", poiché continuano a coltivare e tramandare, tradurre, tradire la conoscenza del loro artigianato, perché restano, non ostante tutto, "attaccati alla terra". 
Non sarà facendo una fiction su un coraggioso ragazzo di destra che si affermerà una cultura libera, così come negli anni non è servito a nulla sostituire un tizio rosso con un tizio azzurro, ma sarà sconfiggendo l'intellettualismo, facendo scendere dai piedistalli i signori dell' "adesso te lo spiego io", che si potrà tornare a una espressione culturale davvero libera. 
Perché quello che conta, ciò che davvero comunica un'idea, un principio, una filosofia, ciò che davvero la rende forte, è il modo, la forma, il "come" eseguo, e non il contenuto. 
Se la destra vuole davvero trovare uno spazio suo culturale per opporsi al predominio dell'intellighenzia, della masturbazione mentale, della perpetua demolizione del "saper fare", deve darsi come obiettivo la liberazione della cultura tutta dalla dittatura dell'intellettualismo, sostenendo il suo più nudo e fulgido artigianato. Se non capisce questo resterà sempre al palo, sempre a rincorrere la sinistra sui suoi terreni, dove è chiaramente più brava, sempre in quello stato di subordinazione timorosa e inconcludente, sempre condannata ad essere una cultura di serie B.