venerdì 11 ottobre 2024

DELLA SONORITA' PERDUTA (Musica e Recitazione, l'indissolubile nodo)



Cambiando il punto di vista si osservano molte cose diversamente. Come, per esempio, siano cambiate le sonorità nella recitazione. E siccome adesso non fai più l'attore a tempo pieno, cioè colui il cui principale scopo è agire, ma il docente, cioè colui il cui principale scopo è istruire, e quindi capire, spiegare, far capire, nonché guidare, ti viene spontaneo farti una serie di domande cui prima avresti prestato minore attenzione.
Ad esempio: è impressionante la povertà di intonazioni, cioè di sonorità espressive, che i giovani paiono oggi avere a disposizione, ed è ancor più impressionante la difficoltà che il loro orecchio ha di percepire sonorità diverse, per non parlare poi delle sfumature, ormai emerite sconosciute. 

Il mondo cambia, siamo tutti d'accordo, e certo non ci son più quei nostri maestri capaci di cogliere la sottile differenza tra le diverse pronunce di una sola sillaba. Il problema è che noi con quelle attenzioni siamo cresciuti, e con difficoltà possiamo distaccarcene. 
D'altronde, non ne vediamo il motivo! Perché per un adeguamento "alla modernità" dovrei limitare le mie possibilità espressive? E se per le giovani generazioni invochiamo e propagandiamo sempre creatività e espressività, la capacità di spaziare e collegare, di conoscersi e crescere costantemente, perché dovrei accettare questa limitazione alla loro crescita espressiva non segnalando loro il problema? 
Per farlo, però, devo interrogarmi sulle cause di questo impoverimento, trovare non soltanto una risposta ma anche un modo per spiegarglielo e scuoterli da quello che considero un vero e proprio torpore della mente e forse della coscienza. 

Si sa che noi ripetiamo i suoni che ascoltiamo, lo facciamo fin dal primo giorno di vita e in modo più o meno evidente proseguiamo per tutta l'esistenza. Verificarlo è facile: se un bimbo nasce in Italia la prima parola che dirà sarà "mamma", se nasce a Londra sarà "mom", e così a seguire; ma non basta: se sei nato in Calabria e a un certo punto della tua vita ti trasferisci a Cuneo o a Treviso, il tuo modo di parlare pian piano cambierà, magari non fino alla cancellazione della cadenza d'origine, ma certamente questa non sarà più la stessa anche se ti sarai spostato a sessant'anni; inoltre, si sa che le lingue che hanno una maggior gamma di sonorità, ad esempio le arabe o le slave, mettono chi le parla in una condizione di maggior facilità di apprendimento di altre lingue.

Quindi: se c'è un impoverimento delle capacità espressive nelle giovani generazioni è ipotizzabile che questo possa essere attribuito alla povertà delle sonorità che i giovani ascoltano, ad una escursione sonora sempre più misera. 
Ribadisco, poiché il cretino è sempre dietro l'angolo, che sto parlano di espressività sonora, di gamma di suoni a disposizione, non del vocabolario a disposizione (che pure quello si sta tristemente impoverendo). Al cretino parrà una cosa inutile o di scarsa importanza, ma se faccio una domanda o non la faccio sarà chiaro grazie alla sonorità che la compone e sorregge: "Sei sempre il solito idiota?", "Sei sempre il solito idiota!".

Un primo problema lo troviamo proprio nella scuola, specificamente nella scuola elementare, dove non si fa più, o si fa pochissimo, la lettura ad alta voce, una pratica fondamentale non solo per imparare a leggere con espressività, ma anche per imparare a scrivere. Infatti, la lettura ad alta voce ti insegna a riconoscere funzione e valore della punteggiatura, capire dove termina una frase, dove c'è una sospensione, un respiro, una pausa più o meno lunga... Se impari questo, conseguenzialmente capirai come usare la punteggiatura, e alla fine: se saprai leggere saprai scrivere, se saprai scrivere saprai leggere

Ovviamente, in tanti daranno colpa alla televisione, che alcune ne ha, ma va considerato un fatto importante: i nostri giovani non guardano la tv o la guardano molto poco. 
La maggiore colpa della tv, soprattutto da quando si è diffusa quella commerciale, è aver lasciato degenerare la pronuncia dell'italiano. La televisione di oggi potrebbe avere come costante sottotitolo: "La dizione, questa sconosciuta", ma è un altro tipo di problema che solo in parte ha a che fare con la questione "gamma sonora". L'esempio negativo più grosso la tv lo dà in quel modo di parlare, ormai adottato da tutti i telegiornali, a volte anche radiogiornali, che abbatte il senso della punteggiatura, nella convinzione che sia più colloquiale e gradevole. In realtà spesso non si capiscono le notizie, proprio perché la punteggiatura è tutta spostata, o inesistente, o illogica. Sembra di ascoltare quell'attore dilettante del film "La Stranezza": "Non ho nessuno, scopo e sono felice", col povero Valentino che cerca di correggere inutilmente: "Non ho nessuno scopo, e sono felice"
Orbene, da tutto questo possiamo dedurre facilmente che l'effetto sull'ascoltatore, se combiniamo insieme il problema dizione e quello lettura inespressiva, è che dire le cose in un modo o in altro non fa alcune differenza, per cui, da oggi, provate a fare una domanda senza farla, o a non farla facendola, a intimare a qualcuno di andarsene senza intimarglielo, o a pregarlo di restare senza pregarlo, tanto è lo stesso, vero? Poi fatemi sapere come va.

Non vorrei passare per il vecchio brontolone (che comunque sono, ma non in questo caso), ma il dilagare della lingua inglese evidentemente non aiuta, poiché si mescolano le sonorità senza che si apprenda, al contempo, quale sia l'effettiva linea di demarcazione tra le due lingue, cosa che invece, come ho scritto per il problema dialetti, sarebbe straordinariamente utile all'apprendimento e crescita di chi vuole usare i due idiomi. 
Ma il macigno grosso, a mio vedere, è un altro. 

Identifico due elementi che contribuiscono all'impoverimento sonoro delle nostre nuove generazione, il primo sono i social, il secondo la musica. 
Nei social si ascolta di tutto, ci si ritrova davanti a ogni nefandezza linguistica, sonora, dialettale per non dire etica e culturale. Deleterio penso sia quella pratica di avere sempre i sottotitoli a ogni video, ad ogni tipo di discorso, poiché questo, come ho potuto verificare lavorando con i ragazzi, disabitua all'ascolto. Si potrà pensare che li alleni alla lettura. E invece no. Perché la perversa combinazione, un po' ascolto-un po' leggo, fa scorrere tanto velocemente che si accoglie come comprensione piena quella che in realtà è una percezione superficiale. Insomma, alla fine vale più il "ho capito che vuoi dire e passo oltre", che il "che stai dicendo? voglio capire bene"
Fate questo piccolo esperimento: date un testo da leggere a dei ragazzi della scuola superiore, meglio se una poesia italiana, potrete notare l'aggiunta di piccole particelle, minuscole parole che non alterano il senso della frase (anche se nel caso della poesia ne scombinano la metrica), ma indicano che il ragazzo sta scorrendo sulle parole in velocità, limitandosi a una comprensione superficiale del testo, accontentandosi del senso, diciamo così. 
Vi riporto, a memoria, un piccolissimo esempio, accaduto di recente. Si leggeva "L'infinito" di Leopardi, esercizio per la declamazione del verso. 
                                   e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare. 

diventava 

                                   e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
CH'è viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensierO mio:
e il naufragar m' è dolce in questo mare. 

Ecco, minime variazioni, che certo non fanno diventare "L'infinito" di Leopardi un'altra cosa, che non ne cambiano la sostanza, ma che dimostrano che la convinzione imperante è che "tanto è lo stesso". 
Aggiungete che le varie ideologie imperanti, o che tentano di imporci: politicamente corretto, woke, gender etc. instillano nei più la convinzione che le parole abbiano valore oggettivo, che dire "negro" è solo offensivo, che dire "clandestino" o "straniero" sia solo discriminante, che dire "donna" sia un affronto per un trans, che dire "ingrassato" sia lesivo della psiche di un altro... E tante altre sonore minchiate che conosciamo, dalle quali la ben nota domanda:
"ma il cioccolato bianco è razzista?"
Sappiamo - e ribadiamolo più che possiamo - che tutte questa sono cazzate! Le parole non sono oggettive, se lo fossero ognuno di noi sarebbe Dio, ma non lo siamo, e dunque una parola, una qualsiasi parola è solo un accordo, una convenzione, una metafora. Anche bicchiere è una metafora, anche magro è una convenzione. 
Ma nell'idea che le parole abbiano valore oggettivo, ecco che l'espressività non può che impoverirsi e con essa si dissolve la sonorità. 

Tutto questo non basta, il colpo di grazia lo dà... la musica, la musica che i giovani ascoltano. Che per la maggior parte è non-musica, mi riferisco in modo particolare al rap e a tutte le sue degenerazione, tipo il trap.
Il 
rap è la musica di chi non sa fare musica, di chi non conosce la musica.
E questo, checché ne pensino alcuni, è indiscutibile. Sono le origini stesse di questa forma espressive (non me la sento di definirlo genere musicale) a dircelo. 

Il rapping - vado per sommi capi, poiché chi vuole potrà approfondire - poi contratto in rap, nasce nelle radio degli ispanoamericani e degli afroamericani. Grido di rabbia, di protesta, di denuncia costruito avendo una base musicale, sempre la stessa, su cui il rapper parla ritmicamente. Quindi il rap è "parlato", non è musica, non è canto, è "parlato".
Cosa avrà di diverso dagli stornellatori di osteria toscani me lo sto chiedendo da sempre, forse il fatto che melodicamente gli stornellatori toscani han più fantasia, ma alla fin fine la modalità è la stessa. 
Conosco l'obiezione che mi si fa a questo punto: "ma i testi, devi sentire i testi, spesso i testi sono davvero belli". Rispondo subito: se voglio leggere un bel testo leggo una poesia, non ascolto il mio concittadino Rocco Hunt, o Eminem, o chicchessia. Perdonate la supponenza, che poi tale non è, perché se voglio musica, cerco musica, non parole. 
In questo, devo fare una confessione: io mi sento un privilegiato, paradossalmente un privilegiato, perché non so l'inglese. Spesso il testo "ci frega", ci affascina, ma io, non conoscendo l'idioma d'oltremanica, da decenni ascolto musica limitandomi all'ascolto della musica. Dopo anni mi son reso conto che questo è stato un grande allenamento: ascoltare Beatles, o Queen, o Doors, o tutti i grandi gruppi del rock senza sapere cosa dicessero, non mi ha creato il condizionamento che qualche volta ho avuto con i nostri cantautori, per cui il fascino di una bella frase faceva passare in secondo piano la qualità della musica, e ci ho messo un po' di anni a riconoscere il valore puramente musicale di Piano Daniele, o Eduardo Bennato, o Flavio Giurato, o Ivano Fossati come nettamente superiore a quello di un... Antonello Venditti, anni per trovare il coraggio di dire in pubblico che Fabrizio De André era musicalmente noiosissimo, che se non fosse arrivata la PFM a dargli un po' di spinta, e che spinta!, stavamo ancora all'adorazione della nenia. 
Qualcuno che è svenuto. Mi spiace. 

Tornando a noi, facciamo qualche esempio, prendo da YT dei pezzi a caso, sperando non ce li vietino subito per questioni di diritti: 

https://youtu.be/iNSQ15H8DZo?si=OAu6K8uo9BhvAGXv 

https://youtu.be/h9NH6dFgM38?si=h0NrPmPdLHJF7GGt 

https://youtu.be/N1pIm7822Kw?si=hxBCMQiL3HFp2dck

https://youtu.be/CQ-NSM-tt44?si=JJtepjXRCENGdbAg 

più o meno raffinato, il succo è sempre lo stesso. Quel che più mi colpisce guardando i video è la gestualità, che è praticamente unica, come un segno di appartenenza, un marcamento di territorio ancor più forte della "musica", e dunque, a mio parere, limitante. Perché così come la voce perde sonorità, anche il corpo perde gestualità, entrambe sono possibilità espressive.  

Ora, se noi ripetiamo i suoni che ascoltiamo, come detto in principio, è evidente che avendo nelle orecchie questa limitata quantità di suoni replicheremo una limitata quantità di suoni, così come il vocabolario degli studenti si va restringendo e la gestualità si sta accartocciando su se stessa. 

La Musica che io principalmente ascolto, fin da quando sono bambino, è questa: 

https://youtu.be/K6CVqC-zHMs?si=nEPKT_y_3DcqdbBL 

e questa: 

https://youtu.be/uUV5K20xuN4?si=EGwx0mobOcnvlM9B 

e questa: 

https://youtu.be/SN5cnVk85uo?si=Zwd5lMBK0vErclch 

e questa: 

https://youtu.be/h7qtyCl7ysE?si=Hj8n5hq1t32dnjDP

Snob? Può darsi, ma vi assicuro che non è colpa mia se sono cresciuto così. Ho sentito il mio primo disco di pop a quindici anni, in seconda liceo, quando mi accorsi che i miei compagni ascoltavano musica totalmente diversa e sentii la necessità di recuperare. Perché, credetemi, non è stata una bella sensazione scoprire che eri lontano anni luce dai tuoi simili, sentirsi escluso da ascolti e discussioni, non poter essere in una condivisione anche se critica. 

Detto ciò, io sono certo che con estrema facilità potrete rilevare quanto di toni, armonia, variazione, ricerca, di fraseggio, respiro e silenzi, quanto di colori, di consonanze e dissonanze, di legato e staccato, quanto di diversi andamenti, lento, adagio, andante, presto, allegro, allegretto, quale gamma di sonorità possono ascoltare le nostre orecchie, quale quantità di possibilità espressive possiamo acquisire e provare a restituire nella recitazione. 
Stiamo al contrario perdendo tutto ciò dietro alle degenerazioni della contemporaneità e soprattutto volendo ignorare il problema. 
Penso sia necessaria una ri-educazione all'ascolto per i giovani, dovremmo smettere, nelle scuole, di insegnare a suonare il flautino e quattro scemenze di solfeggio, ma fare ascoltare e ascoltare e ascoltare la musica, dal gregoriano ai giorni nostri, perché quando con loro ho il tempo di farlo, i volti si illuminano. E Sì, fino ai giorni nostri, perché qualcuno certamente dirà che sono un vecchio parruccone, invece qualcosa di buono in questa modernità c'è, qualcosa con cui ancora giocare e divertirsi, dalla mia amata Robin McKelle fino a... 

https://youtu.be/-FVvVMNuIXU?si=BuXZcd3bOD4YVmlK 


Ascoltate MUSICABuon divertimento! 

lunedì 23 settembre 2024

LA FAVOLA NUOVA

Papà non mi ha mai letto una favola, ma ricordo perfettamente il primo libro che mi regalò: era Pinocchio. Ho con me anche l’ultimo, un prezioso e introvabile volume su Valeria Moriconi, attrice con cui ho lavorato e che lui apprezzava molto, libro che ordinò mesi e mesi prima facendomi una bellissima sorpresa. 

Ma la sorpresa che io ho sempre negli occhi è quella del Pinocchio. Non ricordo il motivo per cui chiesi proprio quel libro, forse perché erano i giorni dello splendido sceneggiato tv per la regia di Comencini, e un po’ tutti eravamo affascinati dalle vicende del burattino di legno. Dubito che io abbia fatto tanti ragionamenti estetici, avevo poco più di sette anni,  chiesi solo Pinocchio. 

Ero a casa dei nonni, dove eravamo soliti pranzare, seduto in terra a giocare con macchinine e mattoncini Lego, l’ora di pranzo si avvicinava, papà tornava dal lavoro: indossava il suo bel loden verde, e ricordo che mi colpì il fatto che lo tenesse completamente abbottonato, dal primo all’ultimo bottone. Appena arrivò io gli chiesi se mi aveva preso il libro. Papà disse di no, io ci rimasi un po’ male e distolsi lo sguardo, tornando a guardare tristemente le mie macchinine, ma poi, ridendo e dicendomi qualcosa come “eccolo qui”, papà da sotto al loden tirò fuori una bellissima edizione del Pinocchio, e la mia felicità andò a mille. Lo ringraziai come credo di non avere mai più fatto, con tutta l’allegria e l’incoscienza dell’infanzia. Chissà se lo abbracciai, io e papà ci siamo sempre abbracciati poco, evidentemente per noi non era necessario. 

Era un bellissimo libro bianco, di un formato più grande del normale, quadrato, con la copertina rigida e lucida, e con tanti affascinanti disegni. Pinocchio era fatto con una giubba violacea a fiori, i pantaloncini sul verdino e il suo bel cappelluccio di mollica di pane bianco sporco. La parte scritta era predominante, e io, che già avevo imparato a leggere, lo lessi tutto, tutto d’un fiato, e poi lo rilessi, e forse lo lessi ancora soffermandosi sempre a osservare quei disegni i cui tratti ancora appaiono, sia pur sbiaditi, nella mia memoria 

Ho conservato quel libro per tanti anni, oggi purtroppo non so dove sia, mi farebbe piacere ritrovarlo, ma non importa, perché quel che conta è sentire ancora viva dentro di me la felicità di quel giorno, la faccia divertita di papà, il ricordo di quel libro, il ricordo di lui, il ricordo di quel semplice scherzo, la felicità che papà mi regalò, e quella che io regalai a lui con la mia felicità.

Mi chiedo se ci possa essere qualcosa di più bello che riuscire a far felice, anche solo per un attimo, un proprio figlio. Me lo chiedo e penso che non ho figli, ma che ricordo vividamente la faccia allegra di papà e provo a immaginare quello che provò, e francamente, oggi, mi basta, mi basta la gioia che mi ha restituita e quel ricordo. 


lunedì 22 luglio 2024

IL SOGNO DELLA BAMBINA (Come l'ideologia può calpestare i sogni dell'infanzia)

Antonia Brico, primo direttore d'orchestra donna










Una sera il papà portò la bambina a un concerto. Era la prima volta. La bambina aveva circa otto anni. Emozionatissima entrò nel teatro tutto illuminato, con le poltrone rosse e i palchi dorati. Tanti signori in abito scuro erano su quello che imparò dal padre si chiamava palcoscenico, ognuno di loro aveva uno strumento. Poi arrivò un signore senza strumento, con una bacchetta tra le mani, le luci si abbassarono e al gesto di quel signore tutti quelli in abito scuro cominciarono a suonare.

Il concerto fu bellissimo. Alla fine la bambina chiese al papà: “Chi era quel signore con la bacchetta?”, e il padre: “Quello è il direttore d’orchestra”. La bambina ci pensò e poi decise: “Da grande voglio fare anche io il direttore d’orchestra”.
Così il papà e la mamma la portarono da un Maestro di pianoforte e la piccola iniziò a studiare. Più di dieci anni dopo tanta applicazione e fatica, diventò quello che aveva sognato da bambina: un direttore d’orchestra! 

Prendete questa storiella e trasportatela in altri campi:
- C’era un giorno una bambina che con la mamma andò a trovare la nonna in ospedale, vide un signore con il camice bianco che curava le persone e allora chiese alla mamma: “mamma chi è quel signore…”
- C’era un giorno una bambina che con i genitori andò alla festa delle Forze Armate, vide un signore con una bella divisa piena di bottoni dorati e chiese: “Chi è quel signore che dà gli ordini e tutti fanno quello che dice lui… “

(continuate a piacere...) 

Ecco, per me la questione si pone in questi termini: “c’era una bambina che sognava di diventare”. 
Poi qualcuno decise che era discriminante chiamare un direttore d’orchestra donna al maschile, e cominciò a chiamare la bambina ormai donna: direttrice. Ma la direttrice, la bambina ormai donna la ricordava bene, era quella che dava gli ordini alla sua scuola elementare, una signora molto brava e importante, che faceva andare avanti una scuola con 500 bambini e tante maestre e tanti signori che collaboravano, la sua direttrice era una davvero in gamba, solo che faceva un altro lavoro, non muoveva le braccia e ai suoi cenni nessuno di quelli della scuola si metteva a suonare. Perché la dovevano chiamare direttrice? Lei aveva studiato per diventare un Direttore! E non gliene importava niente se era al maschile, perché quando aveva scelto il suo lavoro non aveva pensato agli uomini e alle donne, ma solo al fascino di quel ruolo. E se proprio la doveva mettere sulla questione di genere, la conquista sarebbe stata proprio quella di prendere il posto di un maschietto, per fare esattamente lo stesso lavoro del maschietto, e quindi essere definita come un maschietto perché tra lei e il maschietto non c'era nessuna differenza.
Ma la bambina non voleva nemmeno questo, voleva solo fare il Direttore. Perché per lei non contava il sesso, contava il ruolo.  

Ecco, io la vedo così: avvocata, magistrata direttrice o direttora, medica, questora… che diritto abbiamo di calpestare il sogno di una bambina? 

lunedì 1 luglio 2024

"BENVENUTO ALL'INFERNO"

Non ti potrà salvare ciò che scrissero
Coloro che la tua paura implora;
Tu non sei gli altri e ti vedi ora
Centro del labirinto che tramarono
I tuoi passi. Non ti salva l’agonia
Di Gesù o di Socrate né il forte
Aureo Siddharta che accettò la morte
In un giardino, al declinar del giorno.
Polvere è pure la parola scritta
Dalla tua mano o il verbo pronunciato
Dalla tua bocca. Non perdona il Fato
E la notte di Dio è infinita.
Tu sei fatto di tempo, di incessante
Tempo. Sei ogni solitario istante. 

Si intitola "L'apice", è una poesia di Jorge Luis Borges, contenuto nella sua ultima raccolta, "La cifra". 
Quando l'ho letta, la prima volta, a circa 35 anni, non potevo capirla. 
"Come sai che erano 35 anni?". Perché i tempi della mia vita sono scanditi dai miei rapporti con le donne, e molte delle mie letture sono legate a loro suggerimenti.
Le storie, ovviamente, non sono finite bene, ma sicuramente i consigli che loro mi davano erano profondamente interessanti.
La stessa donna che mi convinse a leggere Borges, mi fece leggere Pessoa. Un'altra mi indirizzò verso la letteratura americana contemporanea facendomi scoprire quello che è diventato uno dei miei tre, quattro autori preferiti, Tom Robbins.
A volte sono state scoperte cinematografiche, altre volte musicali... io posso dire di avere sempre ricambiato con una accorta proposta teatrale molto apprezzata. 


Perché dico che lei "mi convinse" a leggere Borges. Borges era all'apice della sua fama proprio quando io avevo vent'anni. Potevo leggerlo allora. Ma mi rifiutai. Intorno a me c'era una sorta di "delirio Borges", un deliquio fastidioso, che riusciva solo a produrmi orticaria.
Sono probabilmente sempre stato così: rifiuto genetico di qualsivoglia omologazione. Soprattutto quando "non si può vivere senza". Stronzata, si può benissimo vivere senza. 

Dunque, tutti in delirio per Borges, ed era come vedere, per citare Eliot, quelle care signore che entrano e escono dalle sale da the parlando di Michelangelo. Come potevo adeguarmi? 
Poi giunse V. e mi spinse alla lettura. Mi disse di cominciare da "Altre inquisizioni". Così feci. E ancora oggi io consiglio di cominciare da lì. Mi è sempre parsa una scelta giusta. 

Ma a 35 anni quella poesia non potevo capirla. 
Quando sei giovane, il mondo ti appartiene, è nelle tue mani, non hai la sensazione del tempo, non pensi che il tempo possa finire, e che quel finire sei tu stesso, e dunque il vero senso delle cose è semplicemente nel fatto che, come il verso più importante e bello della poesia dice, "tu sei fatto di tempo". 

Tu materia es el tiempo 

Qualcosa poi un giorno accade e ti rendi conto che il tempo è passato, e immediatamente lo metti a confronto con quello che ti resta, che poi nemmeno sai quanto sarà, forse cento anni, forse un minuto. 

Quando il nostro amico Giuseppe Rispoli, bravo attore, compì 50 anni, un altro caro amico, e bravo attore, Andrea Lolli, gli mandò gli auguri di prammatica con questa frase: "Benvenuto all'inferno!".
Mi fece ovviamente ridere, ma Andrea aveva colto nel segno. Un tempo si diceva che "la vita comincia a 40 anni", per indicare il punto di svolta, lo scollinamento. Cambiano le epoche, cambiano tante cose... oggi possiamo dire che lo scollinamento si fa a 50. Lì sono cominciati i dolorini, la pillolina per la pressione, lo scrocchiare delle ossa la mattina... Uff! un mare di noie, cui si deve dar conto. Il corpo comincia a parlarti in un modo che non puoi più ignorare, sei costretto a rispondere.
L'inferno è quello.

Tu sei fatto di tempo, sei ogni solitario istante, sei ogni chiropratico che ti mette le mani addosso per farti scrocchiare la cervicale, riallinearti la schiena, illuderti che in fondo basta poco per tornare a ballare. Amen. 

giovedì 27 giugno 2024

PEPPINO ANDAVA A CENA FUORI TUTTE LE SERE (QUANDO IL MONDO ERA PIU' SEMPLICE)

Peppino andava a cena fuori tutte le sere. Pare che dal giorno in cui si trasferì a Roma, appena finita la guerra, non avesse mai cenato in casa. In casa propria, ovviamente, ché non rifiutava gli inviti in case altrui.
Capitava che invitasse in casa sua, ma che Peppino mangiasse solo, o con la sorella, davanti a una tv, era una cosa che non stava né in cielo né in terra. Piuttosto al ristorante da solo! Piuttosto non si mangia! 

Il ristorante prescelto durava per un certo periodo. Poi si cambiava, poi si ritornava in uno da cui ci si era allontanati magari per una discussione con il proprietario o per semplice noia, poi se ne trovava uno nuovo. Fate conto, insomma, che all'incirca ogni paio d'anni il punto di riferimento si spostava. E in venti anni di amicizia sono stati molti: Le Cornacchie, il Cantuccio (proprio di fronte al Senato), I due ladroni, Er Pallaro... se volevi cenare con Peppino a una certa ora del pomeriggio(mai prima delle h 18,00) gli telefonavi, chiedevi se quella sera avrebbe cenato fuori e se ci si poteva vedere. Serenamente ti diceva Sì o No e in caso affermativo si prendeva appuntamento. 
Mai prima delle dieci! E se in tv, in prima serata, c'era un programma che gli interessava non usciva di casa finché non finiva la trasmissione, il che poteva voler dire anche le undici o mezzanotte! Certe volte ci voleva un po' di pazienza... ma ne valeva la pena.
Oppure, in periodi in cui noi ragazzi non avevamo tanti soldini a disposizione, si sapeva dove lui cenava e, all'ora in cui si ipotizzava stesse finendo il pasto, lo si passava a trovare per sedersi con lui e bere una grappa, una vodka, un amaro... E anche questo a lui faceva molto piacere.

Per un periodo più lungo del solito si andò a cenare in un simpatico e colorato ristorante in via del Vantaggio (sempre a Roma, ovviamente), il Melarancio, la cui proprietaria era "la Lolly", e tutti lo conoscevamo così: "ci vediamo dalla Lolly". 
Lolly era una simpatica e bella signora che aveva fatto per tanti anni la truccatrice nel cinema, poi aprì questo simpatico locale che aveva le pareti tutte tappezzate di fiori rosa e gialli e le tovaglie in tinta, i camerieri informali e un divertente chef, di cui purtroppo non ricordo il nome, che usciva dalla cucina a salutarti e a concordare egli stesso con Peppino il menù della serata.
Perché è facilmente comprensibile che, cenando fuori tutte le sere, e sempre nello stesso locale, il menù classico venisse a noia, e allora, proprietari, chef, camerieri, che finivano in qualche modo per diventare amici, si prodigavano a trovare soluzioni alternative spesso inventate al momento, a volte soluzioni semplici: "Maestro, ma volete due uova al tegamino?", e vada per le uova al tegamino!
Ricordo, a questo proposito, che quando facevamo "Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca", nei giorni in cui si lavorava in Sant'Andrea della Valle, si andava sempre a pranzo dai mitici Nino e Paola del ristorante "Er pallaro", antica istituzione romana, che è proprio di fianco alla chiesa.
Ora, dovete sapere che Er pallaro funziona a menù fisso con cifra fissa. Paola cucinava splendidamente, ma, data la formula, il menù era sempre lo stesso. Un giorno Peppino se ne lamentò con la superba cuoca: "Paola, sai fare tante cose buone, che non si trovano più in giro, il coniglio, i rognoni... e facci qualcosa di diverso!".
Non lo avesse mai detto! Paola, come ferita nell'orgoglio, offesa nell'onore, due giorni dopo si scatenò e tiro fuori un pranzo dove c'era di tutto, rognoni trifolati, carciofi, puntarelle, coniglio, fegatini e fegato, spezzatini... fu un vero delirio, una specie di mini-orgia culinaria alla quale, ovviamente, non ci sottraemmo. 

E quando tornammo a lavorare in chiesa eravamo letteralmente cotti! Letteralmente cotti! 
Io quasi barcollavo, e non per il vino, sia chiaro, proprio per il cibo. Peppino teneva sempre energicamente in mano la baracca, ma stavolta, era chiaro, anche lui decisamente a rilento. Storaro, che era stato il più parco, procedeva comunque, sia pur con una certa moderazione. 
Fu il pomeriggio di lavoro più faticosamente divertente che ricordi. 
Quando il giorno dopo, prima di andare a pranzo, Paola venne a informarsi se il pranzo fosse stato gradito, Peppino le rispose: "Magnifico... Anche troppo!". "Bene", fece Paola, e se ne tornò alla sua cucina con un sorrisino stampato in volto e l'occhietto birichino che esprimevano una certa qual perversa soddisfazione per quella goduriosa vendetta. 

Al Melarancio, dalla Lolly, veniva talvolta una bellissima trans, molto compita, sempre abbigliata con eleganti tailleur, si chiamava Valeria. Avrà avuto una quarantina d'anni, ed aveva un fidanzato più giovane di lei, un ragazzo bellissimo e anche lui sempre compito e elegante. Pareva essere proprio una coppia dolcemente innamorata.
Un giorno Valeria arrivò con le stampelle e un piede ingessato. Aveva avuto un piccolo incidente domestico. Il suo fidanzato la seguiva con amorosa attenzione.
Quando Valeria arrivava c'era sempre uno scambio di battute cortesi con Peppino e la sua tavolata, in quel caso la conversazione durò come ovvio più del solito per spiegare ragioni e dinamiche dell'incidente.


Per tutti noi quella era Valeria e quello era il suo fidanzato. Punto. 
Di strano, di particolare, di "spiazzante"... di diverso c'era assolutamente nulla!
Questo valeva per Valeria, come per tanti altri omosessuali, e trans, e anche persone di colore che incontravamo nelle nostre serate. Si divideva con queste persone il tempo, la chiacchiera, la tavola, le pene, le risate, come la cosa più semplice e normale del mondo.


Nei giorni scorsi Valeria mi è tornata in mente, soprattutto l'immagine di lei, una sera, con un elegantissimo tailleur color avio, la folta capigliatura cotonata, un paio di finissime decolleté chiare ai piedi. Perché quella immagine? Non lo so.
E negli stessi momenti mi sono tornate in mente altre persone. Per esempio un compagno delle elementari che si chiamava Franco. Ed era nero, coi capelli ricci, e gli occhiali sin da piccolo. Perché la mamma era eritrea e aveva sposato un ingegnere italiano. Io ero piccolo, e mi pareva che la signora fosse altissima. Tutti i giorni veniva a prendere Franco all'uscita dalla scuola e subito gli dava una piccola cosa da mangiare, una merendina, un panino, un frutto, mentre ritornavano a casa.
E c'era poi un ragazzone alto, robusto, dai muscoli splendidamente disegnati, che faceva il truccatore. Il nome purtroppo non lo ricordo. Era un cubano, omosessuale, la pelle molto scura: era riuscito a scappare dal suo paese, dalla dittatura di Castro. Era diabetico. I racconti di lui, omosessuale, perseguitato e sbattuto in prigione, senza la possibilità di fare l'insulina, che stava male, con i compagni di cella che nulla potevano fare se non implorare per lui una iniezione, o di suoi amici che cercando di fuggire su barche fatiscenti erano finiti in mare in pasto agli squali, beh, erano cose che straziavano l'anima. Veder piangere quel ragazzone alto e dal fisico scolpito, che pareva un dio, che t'immaginavi non potesse essere abbattuto... inutile che ve lo racconti, e mi spiace davvero non ricordarne il nome.


Nel nostro mondo, nel mondo in cui siamo cresciuti, le persone "diverse" facevano parte tranquillamente della nostra vita. Ed erano diverse perché uguali, uguali perché nessuno ci faceva caso, nessuno pensava a sottolineare qualsiasi differenza tra "me e te, noi e voi", ognuno era quel che era e basta. E tutti facevano la corte a tutti, se uno o una ti piacevano "ci provavi" e basta, senza dover sapere prima quale fosse il suo orientamento sessuale. 
Dove doveva esser scritto che magari a una lesbica non potesse piacere un uomo, o un etero non accettasse la corte di un omosessuale, o che una etero potesse a far l'amore con un gay... Conoscevo un regista, di cui ovviamente terrò per me il nome, che era omosessualissimo, ma c'era una donna, etero, una sola donna davanti alla quale perdeva completamente la testa, erano anche stati insieme per anni, e ogni volta che la rivedeva era innamoramento. 
Non c'erano regole, o meglio la regola che vigeva era quella della semplicità, e del non farsi troppe domande, o farle agli altri, non c'era il bisogno di dichiararsi o di incasellare. Tutto era semplice. 

Quando lo racconto ai ragazzi ne sono spiazzati, il mondo in cui li hanno portati è fatto di dichiarazioni di appartenenza, affermazioni dell'ego, di quadrati in cui infilare le persone e le idee, come in uno scaffale del catasto. Un mondo triste fatto di finta libertà. E soprattutto, quando per sbaglio qualcuno chiamava al maschile un trans o al femminile un omosessuale, se era chiaro che non c'era cattiva intenzione nessuno si offendeva, si andava avanti tranquilli, bastava un amico a farti notare la gaffe, con discrezione e simpatia. 
Chi offendeva veniva automaticamente messo in disparte, non c'era posto per gli stronzi, cafoni nel nostro mondo, quelli se la facevano, alla fine, con i loro omologhi e basta.

Ecco, ripensavo a Valeria, al suo fidanzato, alle lunghe serate con Peppino e a come il mondo fosse davvero più semplice, elegante, leggero, in una parola: libero.          

mercoledì 15 maggio 2024

PIAZZARE UNA DIDASCALIA (ancora su Carlo Goldoni)

Mi attardo in questa serata per farvi partecipi di un pensiero che da qualche giorno attraversa la mia mente. 








Mi piace Goldoni, mi piace molto, forse qualcuno lo ricorderà. C'è però una piccola cosa che mi ha sempre lasciato perplesso e alla quale credo di aver finalmente trovato una risposta. 
Il problema riguarda "la didascalia" nell'opera di Carlo Goldoni. 
Perché leggendo i suoi testi succede una cosa strana: le didascalie che indicano il modo in cui un personaggio dice una battuta, che indicano un certo movimento, o a chi il personaggio si sta rivolgendo, sono scritte alla fine della battuta stessa. 
Capisco che per i non addetti ai lavori questo non sia un particolare problema: "Goldoni voleva scriverle così", mi si potrebbe dire. E in realtà questo non è un problema nemmeno per i comici, i quali serenamente leggono battute e didascalie in questa successione come la cosa più normale del mondo, abituati forse, per l'esercizio di lettura all'improvvisa ad alta voce, a buttare l'occhietto alla fine del rigo per vedere se la frase finisce con un punto o un interrogativo. 
Invece, lavorando con i ragazzi di una età compresa tra i quindici e i diciannove anni, ti accorgi che non solo è un problema, ma devi anche rispondere alla loro più insistente domanda: "Prof, perché?". 
Così pensi e ripensi, e ancora ci ripensi... finché una mattina, nel dormiveglia, ti giunge una possibile risposta. 
Chiariamo un altro punto: non tutte le edizioni riportano le didascalie come Goldoni le ha fatte stampare (attenzione a questo "fatte stampare"), e non tutte le commedie procedono esattamente con lo stesso schema. Inoltre, se la battuta è breve, di normale lunghezza, una battuta di dialogo insomma, troviamo la didascalia alla fine, se invece si tratta di un monologo, facile la si trovi all'inizio. 
Da tutto questo discorso, aggiungiamo, sono evidentemente escluse le didascalie che descrivono un luogo o una particolare azione precedente la battuta. 

Qualche esempio da La locandiera 












Orbene, perché? 
Sappiamo che Goldoni scriveva la commedia, quindi questa veniva provata e rappresentata; durante prove e repliche il testo era "aggiustato", perfezionato, con la diretta partecipazione degli attori, una volta avuta questa sorta di versione definitiva che era già passata per il palcoscenico, o meglio per il corpo, la voce, ritmi, pensieri, in sintesi per la recitazione degli attori, poteva andare alle stampe. 

Ho avuto modo di raccontarvi come a mio parere il grande autore non volesse semplicemente fare teatro ma dare alle patrie lettere quella letteratura drammatica che le mancava. Resto convinto che il vero motivo della Riforma sia questo, dove la sostituzione della commedia all'improvvisa con un testo scritto, delle maschere con personaggi della vita reale, son solo pezzi di un progetto più ampio. 
Ebbene, pensateci: se io scrivo, come sempre fanno tutti i drammaturghi, la didascalia prima della battuta, didascalia che contiene una indicazione su come andrà detta la battuta, (malinconico), (allegro), (tra sé)... oppure a chi la battuta è rivolta, (a Lelio), (a Rosaura), (a suo padre, in disparte)... 
qui un esempio preso al volo da Il Giuoco delle parti, di Pirandello 


 








sarò certamente di fronte a un copione teatrale.
Ma forse Goldoni voleva che anche nella forma il testo scritto non fosse come un copione classico di teatro e ricordasse più la narrativa, si mostrasse decisamente come letteratura. Quante volte, infatti, nei romanzi leggete: "Lo saprai a suo tempo", le disse calmo, guardandola dritto negli occhi (ho inventato io, non googlate inutilmente). 
Ecco, la tecnica goldoniana io penso si riferisca a questa tipologia di scrittura pienamente narrativa, e ci costringe a leggere tutta la frase, ad aspettare l'indicazione come in un racconto, si viene a mostrare come letteratura, sganciandosi volontariamente da un copione di teatro, così da tornare ad esserlo solo sulla scena, quando i comici, dopo lettura piena e intera, rimetteranno, nel loro quotidiano esercizio, le didascalie al loro posto naturale avendo in tal modo introiettato, anche a loro insaputa, la Riforma. 

Valeria Moriconi ne La locandiera

 

domenica 28 gennaio 2024

DIALETTO E LINGUA ITALIANA, LA CESURA NECESSARIA - un esercizio da attori e non solo

Un giovane Vittorio Gassman
Il grande attore catanese Angelo Musco











Da anni ormai, assisto a un nuovo e sconcertante fenomeno: la nostra bella gioventù non sa più parlare il dialetto, non lo sa più leggere e lasciamo perdere lo scrivere. 

Parlo per esperienza diretta, nella mia regione, la Campania, ma lo stesso fenomeno ho rilevato negli ultimi anni girando per i vari territori italiani, dal Piemonte alla Puglia al Lazio alla Sicilia...
La gioventù di oggi, virilmente impegnata ad apprendere l'inglese (ma non ci son colpe da attribuire alle lingue straniere, visto che tanto, alla fine, non sanno nemmeno l'inglese), non conosce più il proprio dialetto e generalmente parla un italiano con forte cadenza regionale, e un dialetto improbabile che nulla ha a che vedere con la lingua dei padri; questo quando lo parlano il dialetto, perché spesso non lo conoscono proprio, fino al punto che un ragazzo torinese mi chiese un giorno cosa volesse dire: "Cerea". Mi cascarono le braccia: cerea, il saluto torinese per eccellenza, noto a tutta l'Italia, che pure Totò usava nelle sue boutade, era sconosciuto a un figlio della Mole. Bene, andiamo oltre. 
Non parliamo del dialetto scritto! Il napoletano, per esempio, è massacrato sui social da una bufala divenuta regola, anche col sostegno di un noto film con Alessandro Siani e Claudio Bisio, secondo la quale le vocali finali in dialetto napoletano non ci sono e non si scrivono. E a nulla vale il mostrare a queste "capre sociali" i testi di Scarpetta, Di Giacomo, Viviani, Eduardo, Patroni Griffi, Moscato, fino a Pino Daniele, mostrargli che quelle benedette vocali ci sono, sono scritte e chiaramente leggibili! Niente: per loro non esistono, sia fatta 'a voluntà d' 'o cielo! 

Questa stupidità collettiva è costruita sul più clamoroso degli inganni di questi tempi: la possibilità della oggettività. Quella convinzione, figlia del politicamente corretto, secondo la quale una parola, ad esempio, non ha espressioni, sfumature, non si accompagna all'intenzione, per cui se la usi o sei nel giusto o sei da condannare, quella oscena idea, insomma, per cui si vanno riscrivendo i classici "per non offendere" non si sa chi; nel nostro caso, l'idea è che il segno scritto abbia un unico ed universale significato. Dunque: per far comprendere alle capre sociali che non è vero, tocca ricorrere proprio a quella lingua che credono di parlare ma nella quale al massimo comunicano - perché c'è un solo modo di parlare davvero una lingua, ed è esserci nati dentro, poiché non puoi mai disgiungere lingua da corpo e corpo da lingua, ma per ora lasciamo stare, magari ci torniamo in un altro post - dicevo che per fargli comprendere l'inganno si deve ricorrere all'inglese e chieder loro molto nettamente: "questo segno grafico che qui vedete 





 


si pronuncia in inglese come in italiano?
E quest'altro segno grafico - perché una lettera scritta è soltanto, e soltanto, e soltanto, un segno grafico cui per convenzione corrisponde un suono, nulla più - quest'altro segno grafico si pronuncia allo stesso modo nelle due lingue? 







Ecco che magicamente alle nostre caprette si illumina lo sguardo e cominciano a capire: in dialetto, nel nostro caso in dialetto napoletano, e in italiano quel tal segno grafico non ha la stessa corrispondenza sonora, per cui la "e" di perdere, in italiano!, non ha la stessa pronuncia della "e" in perdere, in napoletano!
E se gli fai ben ascoltare proprio la pronuncia si accorgono che alla fine di quel perder un suono c'è, che quella "e" che loro troncano in realtà ha un suono corrispondete che esiste nettamente, altrimenti "la dominante" sonora della parola sarebbe una durissima "r". E qui, un primo passo è fatto!

Chiariamo ancora una volta un punto, per chi non lo avesse ancora compreso: quando parlo di "parlare italiano" o "parlare dialetto", mi sto riferendo specificamente alla pronuncia, a quella cosa nota come "dizione". Dizione che offre un interessante risvolto socio-culturale: quando dici che sei un attore, in tanti ti guardano ammirati e prima poi ti chiedono quella simpatica cosuccia: "ma dunque tu parli con la dizione? Che bello, che cosa interessante deve essere". Beh, decisamente interessante, dato che dopo, quando minimamente provi con modalità scherzosa a correggere la dizione di una parola al tuo interlocutore, quello fa spallucce, ti guarda a volte anche offeso e magari ti spegne ogni entusiasmo dicendoti che tanto lui mica deve fare l'attore! E va bene, e anche qui andiamo avanti. 

L'aspetto interessante, per quella che è ad oggi la mia esperienza sia come attore che come docente di attori in erba, è che, oltre al valore culturale che ovviamente ogni dialetto porta con sé indipendentemente dal fatto che abbia o no una sua letteratura, è che una buona conoscenza del dialetto, del proprio dialetto, e magari, ove ce ne sia la possibilità, di più dialetti, rafforza, anzi migliora la pronuncia dell'italiano. È come se nella nostra mente si tracciasse una linea netta, un confine che separa i due mondi, prendendo coscienza dell'essere pienamente da una parte o dall'altra, senza mescolare questi due "Stati". "Stati" che si vedono, si riconoscono, interagiscono, si scambiano informazioni preziose, che possiamo anche decidere di mescolare, ma sarà sempre, una volta appreso il processo di separazione, una commistione o divisione frutto della nostra volontà. 

Nel caso della letteratura campana, o per meglio dire napoletana, è ben nota la sua vastità, il valore elevato degli autori, nonché il ricco patrimonio musicale che è forse il primo e più importante veicolo di trasmissione di quel dialetto. Perché questo è un altro aspetto fondamentale che non dobbiamo ignorare: separare e imparare a utilizzare dialetto e italiano è questione di suoni, è questione di orecchio, di "elasticità uditiva" e dunque espressiva; più ricco sarà il nostro dialetto, più ricco il nostro italiano, maggior quantità di suoni avremo a disposizione, e questo, per chi vorrebbe esprimersi oltre che col corpo anche con i suoni, è un aspetto quasi di vitale importanza. 
Assistiamo, infatti, oggi, anche ad un impoverimento, oltre che lessicale, anche espressivo delle nuove generazioni, in questo non aiutati per nulla dal tipo di musica che li bombarda, il rap e tutte le sue derivazioni (sulle quali sospendo il giudizio), che certamente si basano su una elementarissima (voglio essere gentile) escursione sonora. I giovani aspiranti attori, scoprono con meraviglia la quantità enorme di sfumature sonore che hanno a disposizione. Il mio consiglio a loro è prima di tutto quello di ascoltare tanta buona musica, a cominciare dalla classica, onde allenare l'orecchio, e la mente, alla infinita gamma sonora che possono adoperare e, a seguire, all'allenamento con i dialetti, con il proprio e con le altre cadenze regionali, con le quali possono giocare - e in questo caso sì, giocare - per ritrovare il maggior numero di suoni possibili. Più cadenze sapremo riprodurre, migliore sarà la nostra dizione italiana, sempre per i motivi di cui sopra. 

In conclusione: Ave Ninchi non studiava le lingue straniere, studiava i dialetti, studiava nel vero senso della parola, con esercizi e quadernino; non so quanti ne parlasse alla perfezione, pare almeno una decina, tanto da essere scritturata per commedie in romanesco, in catanese, in fiorentino, in veneziano... Lei che era marchigiana d nascita e triestina di adozione. Oggi magari questo sarebbe troppo, ma la grande Ave sapeva che quella conoscenza era, oltre che un personale piacere, una opportunità di lavoro. Forse questo, degli attori in erba, dovrebbero tenerlo presente, poiché la cosa più importante per un attore è il lavoro. 

E chiudiamo davvero con una obiezione che so mi verrà fatta: "il napoletano non è un dialetto, è una lingua", "il veneziano non è un dialetto, è una lingua", "il siciliano non è un...", e via dicendo. Questa frase ha certamente l'amoroso intento di dar senso di nobiltà a tutta la nostra cultura popolare, ed io l'apprezzo anche se sono stanco di sentirmela ripetere. Allora forse va chiarito: qual è la lingua di un popolo? 
Ebbi la fortuna, durante un piccolo convegno, di parlarne con Edoardo Sanguineti, e la sua soluzione mi pare ancora oggi la più interessante: la lingua è quella in cui un popolo scrive le sue leggi, poiché si presume che tutti possano accedervi, leggerle e capirle; ma è anche il frutto di un sentire comune, di un sentimento condiviso, di una intenzione a volta inspiegabile proprio a parole che però ciascuno riconosce come propria e quale segno della propria appartenenza. 
Possiamo dire lo stesso per i dialetti? Sì e no. Sì, in quanto abitanti di un territorio e facenti parte di una comunità; no, in quanto quel nostro dialetto non è condiviso da altri di regioni diversi ma appartenenti alla stessa nazione. E questo non mi pare proprio difficile da comprendere. 
Ma fatta salva la netta cesura che può e deve esistere tra dialetto e lingua, quel che conta è che il dialetto è le nostre radici, è la nostra terra, il nostro stesso corpo che proprio come un albero è radicato al terreno in cui cresce, o in cui è cresciuto; perdere il dialetto è perdere radici, è indebolire l'albero, è lasciarci in balia di qualsiasi vento; è la forza della tradizione, che è sempre uguale, ma sempre cambia nei giorni, perché tradizione e tradire hanno la stessa radice, e ogni tradizione resta viva solo se diviene nostra, di ciascuno di noi, e divenendo nostra, del singolo prima ancora che della comunità, cambia sempre quel poco che la farà perpetuamente viva.
Il tradimento è la reale forza di questo continuo passaggio che tiene vivo ciò che siamo stati, che siamo e che diversi e immutabili sempre saremo.   

giovedì 4 gennaio 2024

"NON TI PAGO" LA PASTA E FAGIOLI!


Ho visto i primi 20' di questo "Non ti pago" di Castellitto e De Angelis su Raiplay.
Inizio leggendo "tratto da..." e già respiro profondamente. 
Poi: "soggetto di Eduardo De Filippo, Sceneggiatura di tizio e caio...", e qui respiro ancor più profondamente e per due volte!
Poi inizia il film. Nessun problema con Ferdinando vestito da marinaio con un pappagallo sulla spalla. Vabbè è un'idea come un'altra, respiro ancora profondamente ma vediamo dove vanno a parare.
Quindi si entra in casa e qui c'è il vero e proprio inizio della commedia. Come si può leggere nel testo o vedere nella edizione televisiva, ci sono la padrona di casa, Concetta, moglie di don Ferdinando, e la cameriera intente a pulire una verdura, tipo fagiolini o broccoletti. E la prima battuta è della cameriera: "Signo', una volta dobbiamo fare PASTA E PISELLI, è tanto che non la facciamo".
Bene, nel film le due donne stanno sgranando i piselli e la cameriera dice: "SIgno', una volta dobbiamo fare PASTA E FAGIOLI, è tanto che non la facciamo".
Domanda: ma quale caxxo è la necessità di questo cambio, quale mistero interpretativo si nasconde sotto questa inutile variazione, perché?
Io, che penso sempre male e sono un dannato complottista, ho immaginato che gli sceneggiatori abbiano ipotizzato che, siccome gli addetti della SIAE pare siano usi leggere solo le prime pagine per verificare l'originalità del soggetto, questa bella variazione proprio a prima battuta già indirizzava l'esaminatore verso un pieno placet al "nuovo soggetto"; in questo modo i diritti d'autore degli sceneggiatori possono considerarsi assicurati. 
Capisco - e ribadisco - sono un dannato complottista malato e incurabile, ma francamente, rispetto al trasformare i fratelli Frungillo in due donne, a mostrare il professore che dorme invece di interloquire con il protagonista, e tutte le altre assurdità che ho visto in venti minuti venti!, tutte cose che posso comprendere nella esasperante voglia contemporanea di fare per forza tutto "strano" , questa, perdonate, stronzata di una innocua pasta e piselli che diventa pasta e fagioli proprio non si capisce se non facendo l'ipotesi maligna che ho fatto. 

Devo invece dire che sono stato a vedere il Natale in casa Cupiello di Vincenzo Salemme, e ne sono rimasto favorevolmente colpito proprio perché Salemme, così come è accaduto in altri casi, penso alla Moriconi, alla Isa Danieli, a Patroni Griffi, a Geppy Glaijeses, ha fatto il suo Eduardo, con la sua netta impronta, senza fare stranezze con Eduardo. 
Dunque, si può fare. Certo che si può fare, basta essere capaci di fare una corretta analisi del testo e da lì partire per la propria interpretazione. Non dimenticherò mai la Filumena di Valeria Moriconi, per la regia di Egisto Marcucci, con un bravissimo Massimo De Francovich nel ruolo che fu di Eduardo. Lo scontro tra di sessi era profondo e intenso, pareva di assistere a uno Strinberg, Eduardo ne usciva splendidamente esaltato. 

Poi ci son quelli che "'o famo strano" e allora... venti minuti, ho smesso! C'è un limite a tutto. Anche alla quantità di bicarbonato che posso ingerire.