Dettaglio scenografia di Eugenio Siniscalchi "Nzerra chella porta" esercitazione alunni V T Sperimentale Teatro 2024/25 Liceo Artistico Sabatini-Menna Salerno |
Oggi, mentre guardavo i miei ragazzi arrampicarsi con le loro esili braccia su
quella immensa montagna che è Eduardo De Filippo e il suo teatro, a un certo
punto mi sono commosso. Loro mi hanno commosso, per la dedizione che ci hanno
messo, dopo giorni e giorni di battaglia, improperi, urli, insistenze, giorni e
giorni in cui ho tirato la carretta, trascinandomi dietro quella banda di mezzi
debosciati che sono i giovani di oggi (definitemi pure boomer!), vedevo che
avevano raggiunto un buon risultato, al punto che ho derogato a una mia
imprescindibile regola: gli ho detto che erano stati bravi.
In teatro, mai dire
a degli allievi che sono bravi, potrebbero sedersi sugli allori, mentre devono
apprendere un insegnamento di vita: che non c’è mai limite al meglio! Infatti,
dopo il complimento, ho aggiunto: “Attenzione, non è che adesso pensate ‘lo so
fare’, potete solo pensare ‘l’ho fatto e mi è venuto bene, ma lo devo ancora
rifare, e poi rifare, e devo provare a farlo ancora meglio’.
Ma c’è un altro
motivo per cui mi sono commosso, e che ho condiviso con loro: all’improvviso,
mentre li guardavo ho capito una cosa, un qualcosa che non mi spiegavo: perché
amo così tanto Eduardo? È per il dialetto, per la vicinanza linguistica, per il
divertimento che mi dà, per la commozione che mi scuote, per la bravura
d’attore, per la bellezza delle commedie, perché ho conosciuto e lavorato con
attori che hanno lavorato con lui e mi hanno raccontato mille cose, perché mi
affascina, per la malinconia verso un tempo in cui avrei amato essere? Certo,
per tutto questo ma anche per quel che oggi ho capito.
Perché il teatro, sapete,
è così, ti viene detta, magari insegnata una cosa, e tu la capisci davvero, ne
prendi coscienza magari anni e anni dopo. Il mio vecchio Maestro, Mario Ferrero,
mi disse una certa cosa in Accademia quando avevo 22 anni, la capii una sera
d’improvviso mentre ero sul palco a recitare “Uno sguardo dal ponte” di A.
Miller e di anni ne avevo 36. Tardo io? No, è che il sapere e il prendere
coscienza sono cose molto, ma molto diverse. A un tratto, mentre recitavo, fui
attraversato da una illuminazione e pensai: “Ecco cosa voleva dire Mario quando
diceva quella cosa!”.
Ebbene, oggi pomeriggio, mentre quelle esili braccia,
dicevo, si arrampicavano sull’Everest, ed a mani nude, ho sentito chiaramente
quello che nessun autore mi ha mai comunicato: la scrittura di Eduardo De
Filippo trasuda tutto l’amore per il teatro che egli poteva avere, ma la cosa
miracolosa, realmente miracolosa, è che trasuda tutto l’amore che noi abbiamo
per il Teatro, in quelle parole, in quelle scene, in quella azione sulla scena
non c’è il suo amore per il Teatro, ma l’amore che tutti i teatranti del mondo
hanno per il loro lavoro, per il loro mondo, e la loro vita, la loro scelta di
vita; io guardavo i miei ragazzi sulla scena e vedevo riflesso su quelle tavole
il mio stesso amore per l’arte che alla loro stessa età ho voluto abbracciare.
È
questo il miracolo: Eduardo scrive il mio amore per il mio lavoro. E mi è stato
chiaro che tutti coloro che lo hanno amato e lo amano, lo amano per questo
motivo, anche se non lo sanno e forse mai lo sapranno ma non importa.
E non
importa se siamo divenuti famosi come lui o insignificanti, conta l’amore che ci
mettiamo ogni giorno, quel che abbiamo imparato da chi è passato prima di noi, e
quel che passeremo a chi vorrà venire dopo di noi. Il resto non è silenzio, ma
una voce che non smetterà mai di cantare finché l’uomo avrà fiato su questa
terra: è il Teatro.