Capitava che invitasse in casa sua, ma che Peppino mangiasse solo, o con la sorella, davanti a una tv, era una cosa che non stava né in cielo né in terra. Piuttosto al ristorante da solo! Piuttosto non si mangia!
Il ristorante prescelto durava per un certo periodo. Poi si cambiava, poi si ritornava in uno da cui ci si era allontanati magari per una discussione con il proprietario o per semplice noia, poi se ne trovava uno nuovo. Fate conto, insomma, che all'incirca ogni paio d'anni il punto di riferimento si spostava. E in venti anni di amicizia sono stati molti: Le Cornacchie, il Cantuccio (proprio di fronte al Senato), I due ladroni, Er Pallaro... se volevi cenare con Peppino a una certa ora del pomeriggio(mai prima delle h 18,00) gli telefonavi, chiedevi se quella sera avrebbe cenato fuori e se ci si poteva vedere. Serenamente ti diceva Sì o No e in caso affermativo si prendeva appuntamento.
Mai prima delle dieci! E se in tv, in prima serata, c'era un programma che gli interessava non usciva di casa finché non finiva la trasmissione, il che poteva voler dire anche le undici o mezzanotte! Certe volte ci voleva un po' di pazienza... ma ne valeva la pena.
Oppure, in periodi in cui noi ragazzi non avevamo tanti soldini a disposizione, si sapeva dove lui cenava e, all'ora in cui si ipotizzava stesse finendo il pasto, lo si passava a trovare per sedersi con lui e bere una grappa, una vodka, un amaro... E anche questo a lui faceva molto piacere.
Per un periodo più lungo del solito si andò a cenare in un simpatico e colorato ristorante in via del Vantaggio (sempre a Roma, ovviamente), il Melarancio, la cui proprietaria era "la Lolly", e tutti lo conoscevamo così: "ci vediamo dalla Lolly".
Lolly era una simpatica e bella signora che aveva fatto per tanti anni la truccatrice nel cinema, poi aprì questo simpatico locale che aveva le pareti tutte tappezzate di fiori rosa e gialli e le tovaglie in tinta, i camerieri informali e un divertente chef, di cui purtroppo non ricordo il nome, che usciva dalla cucina a salutarti e a concordare egli stesso con Peppino il menù della serata.
Perché è facilmente comprensibile che, cenando fuori tutte le sere, e sempre nello stesso locale, il menù classico venisse a noia, e allora, proprietari, chef, camerieri, che finivano in qualche modo per diventare amici, si prodigavano a trovare soluzioni alternative spesso inventate al momento, a volte soluzioni semplici: "Maestro, ma volete due uova al tegamino?", e vada per le uova al tegamino!
Ricordo, a questo proposito, che quando facevamo "Tosca nei luoghi e nelle ore di Tosca", nei giorni in cui si lavorava in Sant'Andrea della Valle, si andava sempre a pranzo dai mitici Nino e Paola del ristorante "Er pallaro", antica istituzione romana, che è proprio di fianco alla chiesa.
Ora, dovete sapere che Er pallaro funziona a menù fisso con cifra fissa. Paola cucinava splendidamente, ma, data la formula, il menù era sempre lo stesso. Un giorno Peppino se ne lamentò con la superba cuoca: "Paola, sai fare tante cose buone, che non si trovano più in giro, il coniglio, i rognoni... e facci qualcosa di diverso!".
Non lo avesse mai detto! Paola, come ferita nell'orgoglio, offesa nell'onore, due giorni dopo si scatenò e tiro fuori un pranzo dove c'era di tutto, rognoni trifolati, carciofi, puntarelle, coniglio, fegatini e fegato, spezzatini... fu un vero delirio, una specie di mini-orgia culinaria alla quale, ovviamente, non ci sottraemmo.
E quando tornammo a lavorare in chiesa eravamo letteralmente cotti! Letteralmente cotti!
Io quasi barcollavo, e non per il vino, sia chiaro, proprio per il cibo. Peppino teneva sempre energicamente in mano la baracca, ma stavolta, era chiaro, anche lui decisamente a rilento. Storaro, che era stato il più parco, procedeva comunque, sia pur con una certa moderazione.
Fu il pomeriggio di lavoro più faticosamente divertente che ricordi.
Quando il giorno dopo, prima di andare a pranzo, Paola venne a informarsi se il pranzo fosse stato gradito, Peppino le rispose: "Magnifico... Anche troppo!". "Bene", fece Paola, e se ne tornò alla sua cucina con un sorrisino stampato in volto e l'occhietto birichino che esprimevano una certa qual perversa soddisfazione per quella goduriosa vendetta.
Al Melarancio, dalla Lolly, veniva talvolta una bellissima trans, molto compita, sempre abbigliata con eleganti tailleur, si chiamava Valeria. Avrà avuto una quarantina d'anni, ed aveva un fidanzato più giovane di lei, un ragazzo bellissimo e anche lui sempre compito e elegante. Pareva essere proprio una coppia dolcemente innamorata.
Un giorno Valeria arrivò con le stampelle e un piede ingessato. Aveva avuto un piccolo incidente domestico. Il suo fidanzato la seguiva con amorosa attenzione.
Quando Valeria arrivava c'era sempre uno scambio di battute cortesi con Peppino e la sua tavolata, in quel caso la conversazione durò come ovvio più del solito per spiegare ragioni e dinamiche dell'incidente.
Per tutti noi quella era Valeria e quello era il suo fidanzato. Punto.
Di strano, di particolare, di "spiazzante"... di diverso c'era assolutamente nulla!
Questo valeva per Valeria, come per tanti altri omosessuali, e trans, e anche persone di colore che incontravamo nelle nostre serate. Si divideva con queste persone il tempo, la chiacchiera, la tavola, le pene, le risate, come la cosa più semplice e normale del mondo.
Nei giorni scorsi Valeria mi è tornata in mente, soprattutto l'immagine di lei, una sera, con un elegantissimo tailleur color avio, la folta capigliatura cotonata, un paio di finissime decolleté chiare ai piedi. Perché quella immagine? Non lo so.
E negli stessi momenti mi sono tornate in mente altre persone. Per esempio un compagno delle elementari che si chiamava Franco. Ed era nero, coi capelli ricci, e gli occhiali sin da piccolo. Perché la mamma era eritrea e aveva sposato un ingegnere italiano. Io ero piccolo, e mi pareva che la signora fosse altissima. Tutti i giorni veniva a prendere Franco all'uscita dalla scuola e subito gli dava una piccola cosa da mangiare, una merendina, un panino, un frutto, mentre ritornavano a casa.
E c'era poi un ragazzone alto, robusto, dai muscoli splendidamente disegnati, che faceva il truccatore. Il nome purtroppo non lo ricordo. Era un cubano, omosessuale, la pelle molto scura: era riuscito a scappare dal suo paese, dalla dittatura di Castro. Era diabetico. I racconti di lui, omosessuale, perseguitato e sbattuto in prigione, senza la possibilità di fare l'insulina, che stava male, con i compagni di cella che nulla potevano fare se non implorare per lui una iniezione, o di suoi amici che cercando di fuggire su barche fatiscenti erano finiti in mare in pasto agli squali, beh, erano cose che straziavano l'anima. Veder piangere quel ragazzone alto e dal fisico scolpito, che pareva un dio, che t'immaginavi non potesse essere abbattuto... inutile che ve lo racconti, e mi spiace davvero non ricordarne il nome.
Nel nostro mondo, nel mondo in cui siamo cresciuti, le persone "diverse" facevano parte tranquillamente della nostra vita. Ed erano diverse perché uguali, uguali perché nessuno ci faceva caso, nessuno pensava a sottolineare qualsiasi differenza tra "me e te, noi e voi", ognuno era quel che era e basta. E tutti facevano la corte a tutti, se uno o una ti piacevano "ci provavi" e basta, senza dover sapere prima quale fosse il suo orientamento sessuale.
Dove doveva esser scritto che magari a una lesbica non potesse piacere un uomo, o un etero non accettasse la corte di un omosessuale, o che una etero potesse a far l'amore con un gay... Conoscevo un regista, di cui ovviamente terrò per me il nome, che era omosessualissimo, ma c'era una donna, etero, una sola donna davanti alla quale perdeva completamente la testa, erano anche stati insieme per anni, e ogni volta che la rivedeva era innamoramento.
Non c'erano regole, o meglio la regola che vigeva era quella della semplicità, e del non farsi troppe domande, o farle agli altri, non c'era il bisogno di dichiararsi o di incasellare. Tutto era semplice.
Quando lo racconto ai ragazzi ne sono spiazzati, il mondo in cui li hanno portati è fatto di dichiarazioni di appartenenza, affermazioni dell'ego, di quadrati in cui infilare le persone e le idee, come in uno scaffale del catasto. Un mondo triste fatto di finta libertà. E soprattutto, quando per sbaglio qualcuno chiamava al maschile un trans o al femminile un omosessuale, se era chiaro che non c'era cattiva intenzione nessuno si offendeva, si andava avanti tranquilli, bastava un amico a farti notare la gaffe, con discrezione e simpatia.
Chi offendeva veniva automaticamente messo in disparte, non c'era posto per gli stronzi, cafoni nel nostro mondo, quelli se la facevano, alla fine, con i loro omologhi e basta.
Chi offendeva veniva automaticamente messo in disparte, non c'era posto per gli stronzi, cafoni nel nostro mondo, quelli se la facevano, alla fine, con i loro omologhi e basta.
Ecco, ripensavo a Valeria, al suo fidanzato, alle lunghe serate con Peppino e a come il mondo fosse davvero più semplice, elegante, leggero, in una parola: libero.