Sto per scrivere una cosa che ai più non
piacerà, ma sento di volerlo fare.
Oggi,
9 maggio, ricorrono i tristi anniversari della scoperta del cadavere di Aldo Moro a Roma e di Giuseppe Impastato a Cinisi in provincia di Palermo (1978).
Come
saprete, la morte di Impastato rimase praticamente oscurata dall’assassinio del
grande statista democristiano, forse il solo che l’Italia repubblicana abbia
avuto, all’epoca in pectore come Presidente della Repubblica.
Non ci fu indifferenza verso la morte di Peppino, come lo chiamavano gli amici, ma l’altro “fatto” fu così sconvolgente, che quasi naturalmente coprì tutto il resto. D’altronde il rapimento Moro aveva tenuto col fiato sospeso non solo l’Italia, ma il mondo intero per ben 55 giorni, mentre la notizia della morte di Impastato arrivava sulle pagine dei quotidiani nazionali come uno dei tanti casi di cronaca e con dinamiche che sul momento erano tutte da chiarire.
Dovemmo
arrivare al 2000, ben ventidue anni dopo perché alla memoria di Impastato fosse
restituita giusta collocazione; e ciò avvenne fondamentalmente grazie a un film
di clamoroso successo, “I cento passi”, del regista Marco Tullio Giordana,interpretato da un giovane ed esordiente Luigi Lo Cascio.
Da
allora il ricordo di Peppino Impastato è associato a quello di Aldo Moro, come
due vittime di una stessa ingiustizia, di una stessa negazione di verità e
libertà, perpetrate da un lato dalla Mafia e dall’altro dalle Brigate Rosse.
Bene:
è su questo punto che è necessario fare chiarezza perché i due fatti non sono
simili né associabili, se non che nell’assassinio di due innocenti.
Prendo
spunto dal primo twitt che mi è capitato sotto mano, quello di Maria Elena
Boschi, ma senza alcun intento polemico, il suo valeva, a scorrere l’hastag
#AldoMoro, quello di tanti altri.
1
– Mettere sullo stesso piano la Mafia e le BR è un errore oltre che politico,
strategico nella lotta a queste due pericolose entità.
Perché
le Brigate Rosse, come un qualsiasi altro movimento ideologico, vogliono
sovvertire, attraverso una organizzazione e un’azione paramilitare, l’ordine
dello Stato, al fine di impiantare un diverso ordine, quello appunto in cui gli
appartenenti a quella organizzazione credono. Le BR erano una formazione di
sinistra, ma si potrebbe fare esattamente lo stesso discorso per una formazione
di destra: il fine di questi “rivoltosi ideologici armati” è sostituire lo
Stato vigente con un loro Stato, ed è presumibile, soprattutto nel caso di una
organizzazione che trae ispirazione dall’ideologia marxista, che la Mafia non
sia contemplata nella sua visione di Stato e di giustizia sociale, essendo la
criminalità organizzata per sua stessa natura contraria proprio al concetto di
giustizia sociale.
Dal
canto suo, invece, la Mafia non vuole sostituire Stato con Stato, ma ha
interesse ad avere uno Stato squinternato, sfasciato, disarticolato nelle cui
pieghe muoversi per fare i propri affari. La criminalità organizzata vuol
assumere potere di Stato soltanto per la gestione delle situazioni che la interessano, il famoso “Stato nello Stato”, ma lo Stato le serve e non vuole
perderlo. È come una tenia che divora il cibo con cui il corpo in cui se ne
sta nascosta si nutre e senza il quale morirebbe.
Pensate
che la Mafia stanzierebbe i fondi per la realizzazione di una qualsiasi opera
di pubblica utilità? Certamente no! La Mafia vuole che uno Stato sgangherato
stanzi i fondi per la realizzazione di opere pubbliche in cui infilarsi
per lucrare.
Mi
par dunque chiaro che mettere sullo stesso piano Mafia e Brigate Rosse è un
errore.
2
- Col doveroso rispetto per Peppino Impastato, i due omicidi, come dicevo, non
sono simili né sovrapponibili.
Per quanto sia doloroso il dirlo, la morte di Impastato è una delle purtroppo tante morti di mafia. L’elenco è tragicamente lungo, ed ogni morte ha la sua storia,i suoi caratteri, la propria specificità. Quel che sicuramente ci commuove nella storia di Impastato è la giovane età della vittima, il coraggio della sua esistenza all’interno di una realtà familiare e sociale più che difficile, il tentativo maldestro di manipolare la sua fine come fu per GiangiacomoFeltrinelli, il silenzio che avvolse l’omicidio per troppi anni date le circostanze di cui si è detto.
E c’è anche da chiedersi: Se non ci fosse
stata l’emozione collettiva suscitata dal film, bellissimo film di Giordana, sentiremmo
lo stesso trasporto verso questa vittima di Mafia o sarebbe nell’elenco come
tante altre? Fermatevi un attimo a riflettere e chiedetevi: ci sono state altre giovani
vittime delle criminalità organizzata, e queste vittime avevano in casa membri legati
alla società mafiosa, e queste vittime si sono comportate con un coraggio che
nessuno di noi avrebbe avuto, sono anche loro andate al macello come agnelli
sacrificali spesso nella indifferenza generale? Purtroppo la risposta è Sì.
Che
Giuseppe Impastato assurga a simbolo delle tante vittime di Mafia perché
attraverso la sua figura possiamo in questa giornata ricordarle tutte è auspicabile,
doveroso, importante, giusto, ma… ma l’omicidio di Moro è altra cosa.
Sentii
dire una volta a Riccardo Misasi che quel 9 maggio 1978 non era morta la
Democrazia Cristiana, ma era morta la democrazia in Italia.
Per
quanto possa sembrare forte e assurda io capisco oggi che quella frase era profondamente veritiera.
Sulla
morte di Aldo Moro, non ostante il grande lavoro delle Commissioni d’inchiesta,
della Magistratura e delle FFOO, dei giornalisti, persistono misteri che
probabilmente non verranno mai rivelati, almeno fin quando saranno in vita
persone che possono essere state direttamente o indirettamente coinvolte nei
fatti. Del caso Impastato, invece, sappiamo tutto.
Non
è questione di far graduatorie, di creare morti di serie A e di serie B, ma il
mescolare le cose porta ad un annebbiamento e ad una corruzione della memoria
che ci si deve chiedere a chi e a cosa possa giovare.
Aldo
Moro è stato il più grande statista che questa nostra Repubblica abbia mai
avuto, ancor più di Alcide De Gasperi, il cui immenso merito fu certamente
quello di portare l’Italia fuori dalla guerra, darle insieme ai gradi leader
degli altri partiti, Nenni, Togliatti… la sua forma repubblicana, ridarle dignità internazionale, e avviarne la rinascita.
Moro
aveva una visione precisa della Nazione, del suo futuro, della struttura che si
doveva raggiungere, del compimento della nostra democrazia e anche una visione
centrata del passato. Aveva un metodo e degli obiettivi da perseguire, in nome
della Patria e della Democrazia in questo nostro Paese. Quel che l’Italia
riuscirà a fare in quei trent’anni, dal ’48 al ’78, resterà irripetibile non
solo nella sua storia ma anche in quella di moltissimi paesi occidentali. E
Aldo Moro è il fondamentale protagonista nel compimento di questo percorso. Non
è azzardato affermare che la nostra nazione non ha mai più avuto un ministro
degli Esteri del suo valore e con le sue capacità.
E
aveva un metodo: di dialogo, di costruzione, di collaborazione, di paziente convincimento
e coinvolgimento, e quella che ai più poteva sembrare una sua debolezza era in
realtà la sua forza: la calma, la pazienza, la ricerca costante del punto d’incontro
e del compromesso. Un metodo che, se vi fermate a riflettere, è praticamente
perfetto per un Paese fatto di ottomila comuni, di ottomila campanili, di realtà
diverse nelle tradizioni e nelle sensibilità, un Paese che necessita di
costantemente del compromesso tra culture diverse, che soffre nella omologazione
e si esalta nella diversità sua propria territoriale.
So
già cosa diranno altri: “Anche Berlinguer”. Io non vi dico di No, vi dico solo:
“Non lo sappiamo poiché Enrico Berlinguer non ha mai avuto responsabilità di
governo”, quindi l’accostamento non è fattibile. È parte della narrazione di
una parte, ma non può avere nessun riscontro effettivo, è solo basato su i “se”.
Mentre
sono fatti le azioni compiute Aldo Moro per questo nostro Paese. Una delle
letture che sento di consigliarvi è “Il puzzle Moro” di Giovanni Fasanella, un
libro estremamente interessante costruito sui documenti desecretati del
servizio segreto inglese. Lì si capisce chiaramente quale possa essere il
percorso a ostacoli, la giungla in cui un governante è costretto a muoversi per
raggiungere gli obiettivi che si è prefissato, le immense difficoltà che
incontra per la sua nazione, il suo governo, per il partito, personali, le
migliaia di trappole tese costantemente nel gioco del potere e dei poteri.
Non
devo rifarvi la storia di Moro, è davvero pieno di libri, film, documentari, ma
il presupposto perché l’azione di un parlamentare sia efficace è che egli si
senta libero di agire: può, dopo un caso così clamoroso, un caso nel quale chi
voleva perseguire un obiettivo inviso ad alcuni poteri sovranazionali, ha
pagato con la vita? può sentirsi davvero libero?
Come
l’ultima Commissione d’inchiesta guidata dall’ex ministro Fioroni ha
certificato, nella morte di Moro, quel 9 maggio 1978, le BR c’entrano poco o
nulla. I misteri persistono, la Commissione non ha saputo ancora dirci “chi fu
e chi volle”, ma qualcosa di certo ce l’ha detto, che per esempio il racconto dei terroristi sull’omicidio nel garage di via Montalcini 8 è palesemente
falso. E tanto altro.
L’omicidio
di Aldo Moro non è uguale a quello di Giuseppe Impastato. E mi si scusi, ma non
mi spiace dirlo, perché è una ovvietà, un qualcosa che dovrebbe essere evidente,
soprattutto perché, ribadisco, non c’è alcuna volontà da parte mia di creare
morti serie A e morti di serie B, solo che sono due cose differenti.
Ma
allora, può esserci un qualche motivo dietro questo continuo accostamento?
3
– Già mi era capitato di notare che una certa sinistra, ex comunista, stava curiosamente
proponendosi come biografa di Moro e narratrice della sua tragica fine. Uno
degli esempi più limpidi è stato il libro del direttore de L’Espresso, Damilano, che giunse improvviso nel quarantennale. Dice: “Ma vuoi impedire a Da
Milano di scrivere un libro?”. Per carità! Mi pare soltanto strano che un ex
comunista, direttore del settimanale più di sinistra che questo Paese abbia
avuto, decida all’improvviso di scrivere su di un argomento sul quale non mi
pare si sia mai applicato particolarmente se non per il suo normale lavoro da
cronista, sul presidente di quel partito che la sua storia politica ha sempre profondamente contrastato. Libro pubblicato poi da importantissima casa editrice, con grande spinta
pubblicitaria, che diviene improvvisamente punto di riferimento del racconto di
quei tragici 55 giorni. Quel volume, a detta di chi lo ha letto, non aggiungeva
assolutamente nulla all’Affaire Moro, anzi la vicenda prendeva un che di
romanzesco, quasi che il fatto fosse opera di finzione e non realtà (a
proposito di “finzione – realtà”, oggi sono anche i cento anni dalla prima
rappresentazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello).
Arriva
in questi giorni nelle librerie la nuova fatica letteraria di un altro ex
comunista, Walter Veltroni, e guarda caso è un libro sulla fine di Aldo Moro. E
va bene, sarà indispensabile anche questo, non lo metto in dubbio; quello che
non mi torna è altro: Marco Tullio Giordana è autore anche di un bellissimo
film sulla morte di Pier Paolo Pasolini, “Pasolini, un delitto italiano”.
Pier
Paolo, l’uomo del “io so”, ebbe a dichiarare e a scrivere di Aldo Moro: “Il
meno implicato di tutti”, anche se Pasolini i “gerarchi democristiani” li
voleva comunque tutti indistintamente alla sbarra.
Per
una vita il Partito Comunista Italiano prima, e le sue varie deformazioni poi,
si sono scagliate contro la Democrazia Cristiana, il grande partito popolare
cattolico accusato di tutti i mali della Nazione proprio mentre la costruiva quella
Nazione. Per far questo il PCI usò una strategia che, come ci racconta proprio
Fasanella nel suo “Puzzle Moro” stupì per certi versi lo stesso statista
italiano, quando in un incontro con il Primo Ministro inglese - era il 1963 e
nasceva il primo governo di centrosinista - ebbe a dire che con il PCI si stava
verificando un curioso fenomeno: la ideologia comunista non attecchiva tanto
sugli operai come ci si sarebbe aspettato, ma su intellettuali e artisti.
Forse,
come la Chiesa centinaia di anni prima, i Compagni avevano subito compreso che
il controllo della Cultura era via imprescindibile per raggiungere il potere, e
gli effetti di quelle scelte strategiche ce li ritroviamo ancora oggi
pesantemente sul groppone.
L’assassinio
di Moro da parte delle BR pone un serio problema ai Compagni: la
vituperatissima DC ha adesso un “santino”, un uomo intoccabile, una figura che per
il sacrificio può solo essere mostrata al popolo nel suo lato positivo di grande
statista, uomo buono, agnello sacrificale sull’altare della democrazia
italiana.
Lui,
Moro, “Il meno implicato” per imprimatur dell’altro agnello sacrificale, PPP,
non può più essere attaccato. Si può attaccare il suo partito, gli altri uomini
del suo partito, come Andreotti, Cossiga, Forlani, ma Moro no. E non basta, la
domanda che si consolida è: se il presidente fosse uscito vivo da quei 55
giorni, la Democrazia Cristiana sarebbe stata la stessa? Quel partito che dalla
opposizione si era cercato per anni di demonizzare, aveva ora un punto di
assoluta purezza.
Nella
narrazione degli oppositori questo è un serio problema. Potrebbe essere facile,
partendo da quel punto di purezza mettere in discussione tutta la narrazione,
tutto il male che si è detto e si continua a dire degli anni di governo della
Democrazia Cristiana. Se il racconto frana, franano con esso i suoi costruttori.
Ma
ecco che alla fine degli anni ’90 arriva un film e offre una possibilità di
riscatto per “i narratori”, appunto “I cento passi” e la storia di Impastato.
Le
due morti sono dello stesso giorno e una ha oscurato l’altra, ma se le metto
insieme e costruisco bene la nuova narrazione, come spesso accade la gente non
sarà portata a notare le differenze, non tenderà a “elevare” il “Caso Impastato”
all’ “Affaire Moro”, ma farà scendere l’Affaire al livello del Caso.
Come?
Ma è semplice: basta mettere le personali battaglie dei due sullo stesso piano,
convincere le persone che Moro e Impastato combattevano per un comune obiettivo
(lungi ovviamente dallo spiegare quale fosse), basta equiparare le BR alla
Mafia (tanto “terrorismo” può comprendere qualsiasi cosa), basta condire il
dolore e il rimpianto di quelle parole che vogliono dir tutto e nulla,
come Libertà, Ideali, oppure Combattere l’odio, Contro la violenza… in una
genericità, profondamente colpevole, che fa perdere di senso ad entrambe le
storie.
In
qualche modo, accostare la drammatica fine di Impastato, con la tragica fine di
Moro è strumentalizzare Impastato per screditare Moro.
Ed
è forse in tal senso che possiamo inquadrare lo sforzo degli ex “Compagni” nel volerci
raccontare LORO la storia del presidente dell'odiato partito Democristiano.
Appropriarsene per fare in modo che tutta la narrazione resti ancora una volta nelle loro mani.
Ma quelle due morti non sono uguali: da un lato è stato assassinato un ragazzo puro e coraggioso, dall’altro una nazione, che ancora oggi, quarantatré anni dopo cerchiamo faticosamente di ricostruire.