martedì 17 giugno 2025

ASTENSIONISMO, CHE CI SIA UNA RAGIONE TERRA TERRA?

 Lasciamo perdere il Referendum abrogativo dell'8 - 9 giugno, ché lì il quorum ha un senso costituzionale preciso, ragionato e a mio parere (che poco conta) più che corretto, per cui l'astensione ha un chiaro valore come modo di esprimere la propria opinione, per il resto delle consultazioni elettorali ho sempre sostenuto e continuo a sostenere che chi si astiene ha sempre torto. E non mi toglierete questo pensiero.
Nel resto delle tornate elettorali il quorum non c'è, dunque chi non sceglie non ha poi moralmente alcun diritto di recriminare o lamentarsi, anche se gli è assolutamente consentito dalla Costituzione... e dalla nostra pazienza. La verità è che per la democrazia, per essere veri democratici ci vuole un fegato di ferro, per ingoiare, digerire, filtrare tutte le sciocchezze che senti dagli altri, ma che gli altri hanno tutto il diritto di pensare e dire, anche perché è molto probabile che loro penseranno lo stesso di te. 

Ma al netto di tutto questo, è fin troppo evidente che da almeno venti anni a questa parte la partecipazione popolare alle tornate elettorali di vario ordine e grado vada scemando in modo preoccupante. Sul perché troverete certamente spiegazioni e teorie di alto valore scientifico, io ho una mia idea molto terra terra. 

La verità, secondo me, è che l'italiano ha sempre avuto una sorta di fastidio verso la politica, pur essendo uno degli animali più politici del globo. Il fatto è che egli vede la politica, e l'elezione del politico, come una delega, ma non in senso nobile, cioè: "Tu mi rappresenti", ma in senso pratico, talvolta eccessivamente pratico, poiché quando vota l'italiano medio vuol dire: "pensaci tu a 'sta cosa, io non ci voglio pensare ho altro da fare, e vedi di far funzionare il tutto. Insomma, fai bene e nun me scuccià!". 
Ora, tutto andava bene finché il danaro c'era e circolava, ma con l'ingresso nella UE, lo sappiamo, e con l'arrivo dell'euro, le cose si sono complicate e molto, per cui il politico, non trovandosi più in mano le disponibilità economiche di prima, non ha potuto fare quel che ci si aspettava da lui. Inoltre, impoverendosi la classe media, lo "stipendio del politico" al quale nessuno nel periodo della Lira faceva davvero caso, è diventato un parametro scatenante rabbia (sia pur scioccamente, ma così è). Ed ecco che le persone che delegavano han cominciato a vedere il politico come uno che non risolve - ma che senza denari non si cantano messe, a pochi viene in testa! - e che rispetto a me povero impiegato si prende pure un sacco di soldi (come se 5000 leuri al mese, che questo è l'effettivo stipendio di un parlamentare, fossero chissà quale cifra). 
Dunque: che ci vado a fare a votare gente che non mi serve e campa sulle mie spalle? (ditemi che non avete mai sentito questo tipo di ragionamento). 

Ma c'è una ragione ancora più profonda e legata sempre al sistema economico in cui ci siamo infognati: molte persone semplici, ma anche quelle non semplici (sic), andavano a votare perché conoscevano personalmente un politico, il quale era in grado di trovare un posto di lavoro al figlio, di velocizzare una pratica per l'invalidità o la pensione, farti avere il trasferimento più vicino a casa... Quello che insomma qualche moralista alla Alberto Sordi definiva come voto di scambio strettamente legato alla preferenza. Intere famiglie votavano per Tizio o Caio perché gli risolvevano i problemi. 
Oggi Tizio o Caio non hanno più potere, non possono più alzare il telefono e fare assumere il figlio del sig. Giovanni alle Poste, o di fare trasferire il carabiNIere Stelluti da Martina Franca a Rovereto, paese della sua famiglia. E questo sempre perché, per i motivi economici suddetti, hanno le mani legate. Tutti, bene o male, avevano un politico di riferimento, uno cui potevano rivolgersi per un problema, problema che quasi sempre poteva essere risolto in modo lecito, a differenza dell'idea che la narrazione ha diffuso e inculcato nella testa dei cittadini. 

Si potrà dire che oggi la politica, avendo perso la sua parte di "voto di scambio" sia più pura. Può darsi, ma quanto sarà mai pura una politica una politica in cui comunque sia il rappresentante dei cittadini ha le mani legate? 

Io trovo che votare sia sempre meglio, che gli assenti hanno sempre torto (tranne nell'abrogativo, come detto all'inizio), ma invece di stracciarsi le vesti dopo ogni elezione sulla non partecipazione al voto, proponendosi di far qualcosa per riportare gli italiani alle urne, chiediamoci davvero quali siano le ragioni profonde dell'astensione. Il malcontento? D'accordo, ma questo malcontento da dove nasce?

Capisco che la mia sia una spiegazione molto terra terra, ma magari ha un qualche senso. Chissà... 

venerdì 6 giugno 2025

SOVVEZIONI AL CINEMA, UN PRINCIPIO DA RIBALTARE

 La polemica sui soldi che lo Stato italiano destina alle produzioni cinematografiche non accenna a diminuire, come è nella logica delle cose quando un dibattito perde il suo valore di riflessione collettiva e diviene solo strumento di contrapposizione politica. 

L'attore Elio Germano



Da un lato, lo sappiamo, c'è il Governo del Paese che afferma di non poter sperperare i soldi dei cittadini, dall'altro gli uomini del Cinema che affermano che il governo fascista vuole togliere i soldi alla Cultura. 
Entrambi i modi di porre la questione sono a mio parere errati: se da un lato non si può valutare un'opera dell'ingegno sulla base dello sbiglettamento, dall'altro non si deve pretendere un contributo, a volte molto ma molto sostanzioso, sulla fiducia. 

Conosciamo i nomi di artisti che nel corso della Storia sono stati considerati meno di nulla per poi essere valutati come geni che producevano capolavori. da Van Gogh a Pirandello, da Wolfe a Manet, fino a qualcuno che ebbe il coraggio di affermare che Caravaggio aveva distrutto la pittura. 
Dunque, valutare un'opera come di scarso valore perché l'hanno vista i dodici non è un criterio valido. "I cancelli del cielo" di Michael Cimino è stato uno dei più grandi insuccessi della storia del cinema, ma dopo ci siamo accorti che era un film superlativo. Perché il valore artistico delle opere lo decide, sul serio, solo il tempo e la loro resistenza nel tempo. 

Ma dall'altro lato, parlare di Governo che non vuole sovvenzionare la Cultura è una bufala. Per un motivo simile al precedente, perché se un Governo vuole o no sostenere la Cultura non lo si decide sulla base della cifra che mette a disposizione. Un Governo, essendo un organo politico, deve fare azioni politiche, creare condizioni e criteri perché le attività culturali (non "la cultura" che è definizione molto generica) possano svilupparsi, perché i lavoratori dello Spettacolo abbiano occasioni di lavoro e siano tutelati, perché le produzioni possano nascere e andare in porto. Ed è possibile che tutto questo venga fatto con una spesa minima o addirittura senza spesa. E se così fosse, se arrivasse un governante che con una brillante idea (che io in questo momento non ho, mentre ne ho sul mio specifico, il Teatro, non so se brillanti ma ne ho), se arrivasse un parlamentare e avesse quella illuminazione che permette alle produzioni di agire pienamente con una minima spesa per lo Stato, sarebbe un male, chi avrebbe il coraggio di dire, in un Paese dove si creano le condizioni per il lavoro che questo sarebbe un male solo perché non arrivano tutti i soldi che noi vorremmo? 

Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni


Come si può vedere, i due modi di affrontare il problema non sono corretti e avranno il solo risultato di perpetuare la ormai noiosa diatriba. 
Cosa dunque andrebbe fatto? Con franchezza non lo so, anche perché come dicevo, il mio specifico è il Teatro e non il Cinema, ma una perplessità in testa ce l'ho e da parecchio tempo. 
La sovvenzione teatrale esiste, ed è sacrosanta come qui ho potuto illustrare, non serve a tutelare il padrone ma il lavoratore, soprattutto quello di qualità (e per qualità intendo professionale).Ora, la sovvenzione teatrale viene elargita dopo che lo spettacolo è stato prodotto ed ha circuitato nei teatri. Per accedervi, come tanti amici Amministratori di Compagnia potrebbero raccontarvi, ci sono pacchi di moduli da riempire a volte anche con richieste folli, e questo anche a fronte di piani di produzione preventivi che vengono richiesti periodicamente, anch'essi con informazioni fuori da qualsiasi logica. Ma in pratica, i soldi si hanno dopo, ribadisco dopo, che il lavoro è stato prodotto ed è arrivato al pubblico. 
Quello che con il Cinema non torna, è che i soldi vengono assegnati prima, prima e sulla base di cosa? Di un progetto. E cosa sarebbe in realtà "un progetto"? Non vorrei dispiacervi, ma... un foglio di carta. Sì un foglio di carta (più o meno lungo), sul quale è scritto quel che si vorrebbe fare, cosa racconta la storia, chi sono i personaggi, gli interpreti... 
Mi pare evidente che questo sistema può presentare tante, troppo incrinature, di diverso genere, da quelle più facilmente immaginabili, alle più sottili e sotterranee. 
Poiché nessuno sa, sulla carta, come sarà quel film. E se tutte le inquadrature dovessero venire male, e se la storia fosse meno efficace di quanto si immagina, e se...?

E qui va inserito un altro aspetto: cos'è l'Arte e in conseguenza la Cultura. 
Per prima cosa: chi decide cosa è cosa non è Cultura. 
Faccio sempre questo esempio, e mi pare funzioni: se Cultura fosse il contenuto, allora la filodrammatica parrocchiale che mette in scena Medea, varrebbe più della farsa messa in scena da Peppino De Filippo. Quindi, può avere un senso giudicare sulla base di "un progetto"? No, perché quella storia potrebbe essere realizzata malissimo, e se anche il regista o gli interpreti fossero di comprovata fama e abilità, potrebbero "toppare" il film. Sappiamo bene che è successo! 
Non solo, ma siamo proprio certi che le storie che raccontiamo sono nuove, originali, o alla fin fine raccontiamo sempre le stesse dieci storie, che mutano solo in luogo e tempo?

E l'Arte, cos'è? Con franchezza non lo so, o meglio quel che so è troppo lungo e complicato da spiegarlo adesso. Di sicuro, l'Arte è una cosa che si vede dopo, nel tempo. Nel senso che quel che facciamo con il nostro mestiere è artigianato, è lavoro manuale (o intellettuale, il concetto non cambia) che si replica ogni giorno con perizia, poi un giorno qualcosa ci sfugge dalla mani e nel tempo gli altri, non noi esecutori, ma gli altri, si accorgono che è Arte. Un tal Francesco I chiese a Benvenuto Cellini di fargli una saliera, e il Cellini eseguì il compito come un bravo artigiano qualsiasi, una volta terminata ci si accorse che si era di fronte a un capolavoro. 

E potremmo continuare con gli esempi, ma in sintesi, io penso che la Cultura sia "il saper fare", la capacità di avere quotidianamente il mestiere tra le mani e svolgere il proprio compito, poi un giorno, senza che ce ne accorgiamo, ci sfugge il capolavoro. Forse. Chissà... 

Dunque, come si componga la diatriba Cinema-Governo non lo so, mi chiedo solo per quale motivo non si debbano pensare per il Cinema tempi e modi di sostegno economico simili a quelli del Teatro: fate, poi rendicontate, poi valutiamo ed elargiamo. Non è un sistema perfetto, ve lo dico subito, ma almeno ci sarebbe più trasparenza e meno discussioni. Noiose discussioni.    

lunedì 12 maggio 2025

L'ABBAGLIO, ROVINARE UN BEL FILM PER UNA BATTUTA




Dato che imperversano le polemiche sul cinema italiano e le sue crisi, perenni crisi se vado alle mie più lontane memorie, ci siam visti un atteso film proprio del cinema italiano: "L'abbaglio" di Roberto Andò. 
Vista la bella prova con "La stranezza" c'erano tutti i presupposti per un'ennesimo buon film. 
E così è stato... fino agli ultimi trenta secondi! 

Sintetizzando, "L'abbaglio" è un bel film rovinato dalla battuta finale!
Io comunque vi consiglio vivamente di vederlo perché, innanzi tutto, Ficarra e Picone sono bravissimi, per certi versi ancor più bravi che ne La stranezza dove comunque mantenevano una vena comica che qui è totalmente espulsa.
Su Servillo sorvolo: non lo amo, non l'ho mai amato, non mi soddisfa mai, trovo che sia didascalico, non credibile, sempre retorico e professorale, perpetuamente intento a trasmettere un messaggio morale più che a recitare. Ha il pieno difetto degli attori/registi legati a doppio filo alla sinistra italiana, attuale e storica: l'intelletto sopravanza il mestiere, mortificando così, sempre, l'espressione artistica. 
La sceneggiatura è azzeccatissima, la storia intensa, con soluzioni e spunti decisamente interessanti e divertenti (non nel senso che si ride!). In alcuni momenti non nascondo di essermi commosso: il sacrificio del ragazzino sulla rocca, per esempio, è un bel colpo; bei costumi, belle scene - anche se la parte computerizzata meritava forse un po' più di cura - e splendida la scelta dei luoghi che esalta una Sicilia, dura, antica e magnifica. 

Ma allora, cos'è che rovina il film?
A bene vedere la storia ricalca quella di un capolavoro del cinema non solo italiano: "La grande guerra", di Mario Monicelli con Gassman e Sordi, dove c'è il riscatto dell'italiano vigliacchetto e truffaldino, debole e pauroso che alla fin fine può, a suo modo, rivelarsi un eroe. 



Un film straordinario, La grande guerra, che essendo stato realizzato una ventina scarsa di anni dopo il fascismo, porta in sé uno straordinario messaggio: contro il virilismo fascista, il debole, il vigliacco ha pieno diritto di essere difeso e considerato, poiché da tutti, dai comportamenti più impensabili e non omologati possono venire delle sorprese. 

Anche nel caso de "L'abbaglio" la storia procede sorprendendoci, ma simpaticamente, i due furfantelli alla fine non solo riprendono la loro strada di piccoli lestofanti, ma fanno, se così possiamo dire, addirittura carriera, mettendo su una bellissima casa di tolleranza con annessa bisca clandestina. 
Il gesto che hanno compiuto è stato davvero eroico e rischioso, ci si aspetta verso di loro un sorriso di comprensione e comunque di ringraziamento. 

Ed invece, eccolo il moralismo che ha smontato e triturato tante speranze e molte possibilità del nostro Paese dal dopoguerra ad oggi, quando una certa parte politica decise che l'Italia era un paesucolo di lestofanti, vigliacchetti e imbroglioncelli, per cui il protagonista, il colonnello Orsini, che tanto realmente ha fatto per l'Unità d'Italia, decide che le loro fatiche, tutta l'impresa dei Mille, è stata inutile poiché questa penisola, Nazione di imbroglioni era e Nazione di imbroglioni è rimasta. 

Dov'è il problema? Il problema è che pure in questo caso, l'intellettualizzazione si sovrappone a uno spontaneo flusso narrativo: non si lascia che la storia proceda per dove essa vuol condurre, ma la si forza a una soluzione, a un tema, a una morale che dopo tanta bellezza, va sottolineato, ti fa cascare le braccia. Hai fatto tutto questo, costruito questa sceneggiatura, questo film, solo per dirci che alla fine che si è combattuto per nulla, per avere lo stesso paese di gattopardi? Beh, caro Andò: banale, scontato, visto e rivisto, e ne siamo anche stanchi. 
Forse questo Paese merita qualcosa di più della solita denigrazione, forse merita il vostro talento che sa condurre ottimamente un film, film che non merita di perdersi per voler dire la noiosa battuta finale. 



lunedì 28 aprile 2025

MEGALOPOLIS di F. F. COPPOLA, UN FILM BRUTTO MA APPREZZABILE!


 


Ieri sera ho visto Megalopolis, l'ultimo film di Francis Ford Coppola. Grande regista. Dovrebbe essere una garanzia. Invece il film è dannatamente brutto, brutto e pretenzioso che tutto ciò che riesce a mettere in scena è il provincialismo americano. 

I titoli di testa la indicano come "favola di F. F. Coppola", e tale è, vista l'ambientazione pseudo antica Roma, i nomi dei personaggi: Cesare Catilina, Cuius Crasso e roba del genere. Costumi e truccature da richiamare la città eterna, e poi sparse come il granone, a iosa, citazioni di Marco Aurelio, Shakespeare a gogò (a un certo punto il protagonista ci declama, non si capisce il perché l'Essere o non essere dell'Amleto... boh!), battute recitate in latino, cast stellare, dispendio di luci e costumi e scene e montaggio acrobatico, storia più banale che sconclusionata, gli USA come Roma conosceranno la stessa decadenza perché i suoi cittadini non credono più nel loro Stato, un po' di morale, un po' di lesbo, qualche nero piazzato ad hoc... Il tutto per due ore abbondanti di noia, noia pura, nelle quali un americano mostra come sia sotto sotto sempre abitato da quel senso di inferiorità che gli comporta l'essere nato in un Paese che non ha una storia antica. 

Insomma, quel Coppola che ci ha regalato - lo sappiamo tutti - capolavori assoluti come Dracula, la saga del Padrino, Apocalypse now, L'uomo della pioggia, il delizioso Tucker - un uomo e il suo sogno, il fantastico Cotton Club, e tanti altri bei film, stavolta ha proprio "lisciato". Succede, anche ai più grandi capita di far bruciare la torta, mancare il buco della ciambella, di inciampare in un brutto film che, a dirla tutta, non è nemmeno recitato benissimo. 

Un pregio, a mio parere, va però rilevato: Coppola il film lo ha scritto, diretto, ma soprattutto se lo è prodotto. A differenza di certi simpatici registi nostrani che pretendono di far capolavoro con soldi altrui o, peggio ancora, con soldi dello Stato, il vecchio Francis, potendolo ovviamente ormai permettere, rischia il suo per il suo. E fa più che bene. Se il film è brutto, questo aspetto è tutto da apprezzare. 
In fondo, quante volte, nei nostri sogni, abbiamo pensato: "Se vinco al Superenalotto mi tolgo questo sfizio", chi con l'arte, chi con i viaggi, chi con la casa, ecc? 
Io, per esempio, avessi la possibilità scommetterei sul nostro Giardino dei ciliegi in napoletano, e allora è più che giusto che Coppola con i suoi soldi faccia quel che vuole. I suoi, non dei contribuenti.





domenica 6 aprile 2025

GOLDONI, ROSSINI: COME TI RIVITALIZZO IL TEATRO

Rossini in un ritratto di M. F. C. Mayer


Goldoni in un ritratto di A. Longhi

La decisione di Gioachino Rossini (1792 – 1868) di scrivere le “fioriture” e di non lasciarle più alle improvvisazioni dei cantanti, mi chiama alla mente, e mi pare anche un facile collegamento, Carlo Goldoni (1707 – 1793) e la sua altrettanto determinata volontà di scrivere “tutto il testo”, scavalcando definitivamente il mondo della Commedia dell’Arte. 

Se però metto insieme i due elementi, da un lato il raffinato lavoro di collaborazione che Goldoni fa con i suoi attori prima di arrivare alla stesura definitiva del testo, dall’altro la profonda conoscenza che Rossini ha del canto per esser stato egli stesso cantante, figlio di cantante, marito di cantante, ed avere vissuto, anch’egli come Goldoni, gomito a gomito con i suoi interpreti, mi viene da pensare non ad una azione di sopraffazione dell’autore sugli interpreti, ma alla volontà di determinare, in ogni sua punto, la drammaturgia, letteraria o musicale che sia, donandole finalmente una nuova dignità, una dignità assoluta.

In questa azione, che mi appare sempre più effettivamente comune ai due, viene a ricrearsi, a rideterminarsi una nuova via del teatro, di prosa o musicale, una nuova letteratura che chiedendo agli interpreti un completo ridisegnarsi nella loro funzione, ne rimette in circolo, attivo e vitale, la fondamentale peculiarità. 

Sia Goldoni che Rossini, infatti, va rilevato, agiscono in un momento in cui le arti precipue di cantanti e attori hanno preso un così “ampio spazio” da divenire il manierismo di loro stesse (quasi una “decadenza”). Potremmo dunque affermare senza tema di smentita che entrambi gli autori focalizzano la loro azione sull’effetto finale ed unico del loro lavoro: la messa in scena.  


mercoledì 22 gennaio 2025

UN MIRACOLO CHIAMATO EDUARDO


Dettaglio scenografia di Eugenio Siniscalchi
"Nzerra chella porta" esercitazione alunni 
V T Sperimentale Teatro 2024/25
Liceo Artistico Sabatini-Menna Salerno

 











Oggi, mentre guardavo i miei ragazzi arrampicarsi con le loro esili braccia su quella immensa montagna che è Eduardo De Filippo e il suo teatro, a un certo punto mi sono commosso. Loro mi hanno commosso, per la dedizione che ci hanno messo, dopo giorni e giorni di battaglia, improperi, urli, insistenze, giorni e giorni in cui ho tirato la carretta, trascinandomi dietro quella banda di mezzi debosciati che sono i giovani di oggi (definitemi pure boomer!), vedevo che avevano raggiunto un buon risultato, al punto che ho derogato a una mia imprescindibile regola: gli ho detto che erano stati bravi. 
In teatro, mai dire a degli allievi che sono bravi, potrebbero sedersi sugli allori, mentre devono apprendere un insegnamento di vita: che non c’è mai limite al meglio! Infatti, dopo il complimento, ho aggiunto: “Attenzione, non è che adesso pensate ‘lo so fare’, potete solo pensare ‘l’ho fatto e mi è venuto bene, ma lo devo ancora rifare, e poi rifare, e devo provare a farlo ancora meglio’. 
Ma c’è un altro motivo per cui mi sono commosso, e che ho condiviso con loro: all’improvviso, mentre li guardavo ho capito una cosa, un qualcosa che non mi spiegavo: perché amo così tanto Eduardo? È per il dialetto, per la vicinanza linguistica, per il divertimento che mi dà, per la commozione che mi scuote, per la bravura d’attore, per la bellezza delle commedie, perché ho conosciuto e lavorato con attori che hanno lavorato con lui e mi hanno raccontato mille cose, perché mi affascina, per la malinconia verso un tempo in cui avrei amato essere? Certo, per tutto questo ma anche per quel che oggi ho capito. 
Perché il teatro, sapete, è così, ti viene detta, magari insegnata una cosa, e tu la capisci davvero, ne prendi coscienza magari anni e anni dopo. Il mio vecchio Maestro, Mario Ferrero, mi disse una certa cosa in Accademia quando avevo 22 anni, la capii una sera d’improvviso mentre ero sul palco a recitare “Uno sguardo dal ponte” di A. Miller e di anni ne avevo 36. Tardo io? No, è che il sapere e il prendere coscienza sono cose molto, ma molto diverse. A un tratto, mentre recitavo, fui attraversato da una illuminazione e pensai: “Ecco cosa voleva dire Mario quando diceva quella cosa!”. 

Totale scenografia

Ebbene, oggi pomeriggio, mentre quelle esili braccia, dicevo, si arrampicavano sull’Everest, ed a mani nude, ho sentito chiaramente quello che nessun autore mi ha mai comunicato: la scrittura di Eduardo De Filippo trasuda tutto l’amore per il teatro che egli poteva avere, ma la cosa miracolosa, realmente miracolosa, è che trasuda tutto l’amore che noi abbiamo per il Teatro, in quelle parole, in quelle scene, in quella azione sulla scena non c’è il suo amore per il Teatro, ma l’amore che tutti i teatranti del mondo hanno per il loro lavoro, per il loro mondo, e la loro vita, la loro scelta di vita; io guardavo i miei ragazzi sulla scena e vedevo riflesso su quelle tavole il mio stesso amore per l’arte che alla loro stessa età ho voluto abbracciare. 
È questo il miracolo: Eduardo scrive il mio amore per il mio lavoro. E mi è stato chiaro che tutti coloro che lo hanno amato e lo amano, lo amano per questo motivo, anche se non lo sanno e forse mai lo sapranno ma non importa. 
E non importa se siamo divenuti famosi come lui o insignificanti, conta l’amore che ci mettiamo ogni giorno, quel che abbiamo imparato da chi è passato prima di noi, e quel che passeremo a chi vorrà venire dopo di noi. Il resto non è silenzio, ma una voce che non smetterà mai di cantare finché l’uomo avrà fiato su questa terra: è il Teatro.