giovedì 21 settembre 2023

LA DRAMMATURGIA AMERICANA, UN'ANALISI

Si faceva Teatro in America, o meglio negli Stati Uniti, quando cominciarono a vivere le prime grandi città, come Boston, o Filadelfia, o New York? Certamente sì. Un'abitudine andata avanti nei secoli che a un certo punto ha avuto dei suoi autori, autori famosi che tutti conosciamo: da Eugene O’ Neill, fino a Tennessee Williams e poi Arthur Miller, e Albee, Mamet, Eliot, Kaufman, Belasco, Shepard, Allen e tantissimi altri. 
Un teatro, quello americano, che si sviluppa principalmente tra fine ‘800 e primi ‘900, e che cerca una sua strada appoggiandosi fondamentalmente alla nuova scienza: la psicoanalisi. Perché? Beh, forse semplicemente perché essendo quelle le commedie del nuovo mondo, si appoggiano, quasi naturalmente, sulla nuova scienza. Un po' come se il classico sasso fosse caduto nello stagno e avesse prodotto le onde che sono giunte alle rive. Non credo ci siano ragioni speciali differenti da questa. La psiche è il nuovo oceano da esplorare, porta con sé il fascino del mondo sconosciuto, e dunque si presta perfettamente per costruire se non un nuovo teatro quanto meno "il nostro teatro"; è la scienza di oggi e noi siamo la nazione dell'oggi. 
Non è tanto, però, l’introspezione a distinguere la drammaturgia statunitense dalle altre (anche un Cechov fa decisamente introspezione, sia pure in altro modo), quanto una certa tendenza alla logorrea.
Una verbosità talvolta incontrollata, infatti, caratterizza la maggior parte dei grandi personaggi americani, ed è proprio in tal senso che quel teatro può essere definito come "psicanalitico", per questa sorta di costante “flusso di coscienza”, come un paziente sul classico lettino che parla in libertà e in quel magma verbale tocca a noi, attori e/o spettatori, identificare i passaggi fondamentali, i punti che illustrano il cuore pulsante del personaggio e della storia.
Il teatro americano è verboso, a volte in modo affascinante, talvolta, dobbiamo dircelo, annoiando non poco. 

Ma un altro elemento contraddistingue la drammaturgia d’oltreoceano, una convinzione legata a doppio filo con un modo d’essere e pensare: l’ossessione per il concetto di Verità. 
Mentire, lo sappiamo, per un americano è quasi peggio che uccidere. Se un Presidente mente non sarà perdonato come un presidente che ruba. Conosciamo tutti la storia della scheda sull’aereo dove ti chiedono “Sei un terrorista?”. Noi europei, antichi e disillusi, ridiamo pensando: “figurati se un terrorista adesso scrive: Sì”. Per uno statunitense, invece, non si può mentire, e se domani compirai un atto terroristico, quell’aver mentito sarà di ulteriore peso nel giudizio. Ricordate il presidente Clinton e la storia di Monica Lewinsky? Ebbene, l’impeachment scattò per la falsa testimonianza, non per altri motivi. 
L’ossessione per la Verità, concetto che noi europei, soprattutto noi latini, abbiamo imparato nei secoli a considerare col dovuto distacco comprendendone l’inafferrabilità ("summa teologica" di tale presa di coscienza è non a caso un italiano, Pirandello), porta gran parte della drammaturgia americana a speculare sul concetto di Parola e dunque di verità. 
Così, psicanalisi e verità si intrecciano, e strutturano la rete su cui il teatro americano si poggia, producendo da “Il lutto si addice ad Elettra”, fino a “Americans”, passando per “La gatta sul tetto che scotta”, “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, “Uno sguardo dal Ponte”, “Il crogiuolo”, “Zoo di vetro”… drammi o commedie nei quali c’è sempre, evidente o sotteso, almeno uno dei due elementi, talvolta entrambi, spesso entrambi ma con uno predominante. 

Per i non addetti ai lavori: non si intende che c'è nel testo una plateale discussione sul concetto di Verità o sul valore dell’opera di Sigmund Freud, ma di un atteggiamento, di una questione che attraversa la trama come un fiume carsico, che a volte possiamo rilevare come un riflesso, talvolta dobbiamo cercare poiché per nulla evidente ma comunque esistente. 

Chiaramente, la drammaturgia ha influenzato anche il cinema, sia perché tante opere teatrali hanno trovato trasposizione cinematografica (si pensi per esempio ai drammi di Tennessee Williams, “Rosa tatuata”, “Gatta sul tetto”, “Dolce ala della giovinezza”, “Streetcar named Desire”), sia perché quella era la linea che chiaramente si era andata definendo nella scrittura statunitense e verso la quale tutti sono andati convergendo. Si consideri infine che, diversamente da noi, negli USA non si fanno distinzioni particolari tra sceneggiatore e/o scrittore, nel senso che nessuno si preoccupa del fatto che Allen, per fare un esempio, scriva una commedia per il teatro, poi la sceneggiatura di un film, poi pubblichi un romanzo, poi faccia una regia… il mercato è diverso, con i suoi vantaggi e svantaggi. 

Ma... alla fine, da dove è venuta questa riflessione? Prima di tutto dal fatto di avere avuto la fortuna di partecipare a importanti messe in scena di autori americani e quindi meditare sui copioni che avevo davanti era necessario; e poi perché guardando tanti bei film del cinema americano più volte ho esclamato: “Porca miseria, ma quanto parlano!”, e un addetto ai lavori deve sempre cercare di darsi una logica risposta tecnica, altrimenti è pubblico, ma da quando "ha rotto le scarpe", non lo è più. Tutto qua.  

Compagnia Sebastiano Lo Monaco, prod. SiciliaTeatro
"Uno sguardo dal ponte" di A. Miller 
Regia Giuseppe Patroni Griffi
Scene e costumi Aldo Terlizzi