martedì 14 dicembre 2021

MARIUCCIO, NOI NON CI ARRENDEREMO MAI!

E allora, Mariuccio Draghi, ce l'hai fatta, mi hai inoculato.
Ho resistito finché ho potuto a questo osceno clima da caccia alle streghe, ho dovuto mentire ad amici e parenti, mi sono dovuto nascondere come gli ebrei sotto la casa nel bellissimo film di Tarantino "Bastardi senza gloria"; e ho conosciuto, in questo osceno periodo per la nostra Repubblica piccoli carbonari come me che resistevano in silenzio e con dignità, la dignità dell'uomo che vuol essere libero, libero in tutti i modi che può. 
"La mia libertà inizia dove finisce la tua". Vi siete riempiti tutti la bocca con questa stronzata retorica. La Libertà non è uno spazio, né fisico né ideale, la Libertà è una condizione esistenziale, e tu Mariuccio caro, insieme ai tuoi sodali di governo tutti, ce l'avete a poco a poco sfilata in nome di un potere spietato e bastardo che vuole uccidere quello che i nostri padri e i nostri nonni hanno costruito con la fatica e con il sangue. La pandemia, caro Mariuccio, e mi rivolgo anche a chi c'era prima di te, a Giuseppi e ai suoi sodali, la pandemia non c'entra un cazzo. Le pandemie si superano, si trovano cure, rimedi, strumenti di prevenzione. Voi, in Italia e fuori Italia, voi invasati delle élite, voi che state pensando di sostituirvi a Dio, o di creare un nuovo Dio a vostro uso e consumo che possa essere adorato dalle masse acritiche, voi in tutto il globo avete fatto e fate di questa malattia un uso politico senza alcuna coscienza. Per questo io vi disprezzo. Sulle coscienze dei potenti del mondo ci sono i morti, pochi o tanti non conta, fosse pure uno è lì, su quelle coscienze, sulla coscienza di gente che non ha coscienza. 
Cos'è il potere? Una idea, una idea che cammina inarrestabile sulle gambe degli uomini e come tale è una fede. C'è chi userà questa fede per il bene comune, e chi per imporre la sua violenta ideologia. Perché una ideologia imposta non può che essere violenta e violenza. 
Il mio cuore politico è sempre stato e resta incrollabilmente vicino ad Aldo Moro, innanzi tutto perché la sua arma era il tentare disperatamente e costantemente di convincere le persone, senza mai imporre loro nulla. Quello per me è un padre, ed un uomo politico vero, e uno statista, il solo che abbia avuto questa Repubblica. 
Quelli come te, Mariuccio, quelli come i tuoi sodali, Speranza, Brunetta, Garavaglia ecc, ma cosa vuoi che siano, cosa vuoi che siate: a confronto siete la suola delle scarpe consumate di un uomo come quello e come quelli che in altri tempi questa Repubblica ha avuto. Persone che prima di ogni altra cosa hanno amato il popolo di questa Nazione. Voi ci disprezzate. Ma è reciproco, rassegnatevi. 
La sconfitta è lì, davanti a voi, e voi non la vedete. Giungerà tardi o presto e con essa le vostre notti dovranno fare i conti. Su di voi incombe la maledizione di Macbeth: "Macbeth ha ucciso il sonno, non dormirai mai più". 
Noi invece, nella nostra semplicità e purezza dormiremo sereni, la nostra coscienza è viva e tranquilla. 

Io sono un attore. Sono un attore temporaneamente prestato alla Scuola Pubblica (che voi odiate), per costruire un servizio alla nostra comunità di italiani. Un lavoro che mi tiene sempre e comunque vicino al mio lavoro e che faccio con amore e dedizione soprattutto verso le nuove generazioni. 
Ora tu mi hai costretto, in quanto "docente", a inocularmi. 
Bene, Mariuccio: che pensi di aver fatto, pensi di avermi sopito, di aver piegato la mia coscienza, pensate, voi e le vostre èlites di merda, che poi sono solo conciliaboli di cafoni parvenue, pensate di avermi piegato, di avere piegato me e tutti gli amici e/o colleghi che come me sentono la Libertà come bene assoluto e mai negoziabile, pensate che il ricatto dei soldi, della mancanza di lavoro, possa averci sottomesso? 
Beh, è bene che tu lo sappia, che lo sappiate tu e tutti i tuoi sodali: ho fatto la prima dose, farò anche la seconda, e poi Dio vedrà, perché mi avete costretto, ma questo ha reso il mio animo ancora più incazzato, sono ancora più determinato a stare nella arena politica per quello che posso e a fare di tutto perché sgombriate da quelle poltrone, perché il mio Paese, la mia Nazione possa ritrovare la sua dignità e possa tornare ad amare e difendere tutti i suoi cittadini, nella verità e nella giustizia, e che possa ritrovare finalmente compiuta appieno la Costituzione come faro, quella Costituzione che voi detestate perché è un impedimento ai vostri affari. 

C'è una cosa che non avete mai capito, forse perché non vi conviene comprenderla: noi non siamo contro niente. Noi vogliamo un mondo normale, con vaccini sicuri ed efficaci, con cure per tutti, con una gestione oculata e cosciente dei problemi, un mondo dove i lavoratori non siano ricattati, dove i Media non manipolino le notizie, dove alla gente non venga fatto il lavaggio del cervello, e soprattutto un mondo in cui tutti rispettino tutti perché chi li governa agisce nel rispetto di tutti, qualsiasi sia il loro pensiero, anche il più astruso. 
Sarebbe possibile con voi un mondo normale? E' chiaro che no. E allora non vi vogliamo, né oggi né mai né a Palazzo Chigi né al Colle. 
Hai 75 anni Mariuccio. Vai a casa a fare il nonno. E' la sola cosa buona che puoi fare se ancora hai un minimo di considerazione per questa che sarebbe la tua Patria. Questa nostra è solo una Dunkerque, stavolta le barche non arriveranno, siamo già noi le barche e ci salveremo, e riprenderemo la guerra. 
Nei modi più inimmaginabili, folli, storti, bislacchi... uno o un milione, soli o insieme, noi ci saremo sempre. 
Noi non ci arrenderemo mai. Perché non possiamo essere diversi da come siamo. 
Noi non ci arrenderemo mai! 


Dedico queste poche parole, l'amore, la rabbia e la tenacia che le hanno generate, a tutti i fratelli e le sorelle che si sono trovati, si trovano e si potranno ritrovare in questa nostra situazione di subire una violenza inaudita alla inviolabilità del loro corpo, e che socraticamente la accettano. A tutti loro il mio grazie per esistere e per lasciare nel mondo una parola, anche una sola parola che possa spingere l'uomo ad andare sempre avanti senza mai perdere la traccia principale della vita di tutti noi: la Libertà. 

martedì 12 ottobre 2021

I TEMPI SONO TRISTI

 I tempi sono tristi, scriveva il poeta. Io non sono un poeta, ma lo confermo. Sento nel cuore una profonda tristezza, segnata palpabilmente da tutto quel che ci circonda e da quanto sta accadendo in questi anni scellerati e terribili che chissà dove ci porteranno, sicuramente non in un mondo buono se così continuano a svolgersi le cose. 

I tempi sono tristi. Qualcosa, o qualcuno, non voglio saperlo per ora, ci ha divisi come con una spada affilata, e ci ritroviamo adesso su un unico campo di battaglia, alcuni in divisa blu, altri in uniforme rossa. E siam pronti ad ucciderci. Perché abbiamo smarrito la ragione. Di questo son certo: tutto dipende dal fatto che abbiamo smarrito la ragione. E la cosa più grave che ciascuna delle due parti è convinta che solo gli avversari, ormai nemici, abbiano smarrito la ragione. 

I tempi sono tristi. Si perdono così gli amici, forse la cosa più preziosa nella vita. Ma si spaccano anche le famiglie, quei porti sicuri dove ciascuno sa di potere riparare in qualsiasi momento e con qualsivoglia difficoltà. Si legge di figli contro i genitori, di genitori contro i figli, e si gode alle disgrazie altrui, anzi queste si aspettano, si cercano così da poter dire: "Visto che avevo ragione io". 

I tempi sono tristi. "Ragione", è la parola più a sproposito usata. Non c'è ragione in tutto questo, non c'è ragione nell'odio, e soprattutto non c'è ragione nel desiderio sfrenato di alcuni uomini di dominare tutti gli altri. E nemmeno c'è ragione nei dominati che si scontrano tra loro senza rendersi conto di essere solo pupi. 

I tempi sono... sono quello che sono, sono quello che abbiamo costruito nei decenni senza accorgerci, sia pure nella nostra buona fede, della brutta china che tanti ragionamenti, che ci parevano semplici e logici, ci facevano prendere. Di chi sarà la colpa? Non ha nemmeno più importanza saperlo, almeno adesso. Conta a questo punto sapere, capire, scoprire, cosa possiamo fare per rimettere in rotta la nave, e come possiamo fare per riprendere una navigazione sana, nel canale della ragione umana e soprattutto della Giustizia. 

I tempi sono... senza Giustizia. La cosa che più sento ci manca ad ogni livello e in ogni situazione, quella giustizia giusta fatta di piccole cose, di minimi gesti quotidiani che ti fanno sentire che la vita è possibile. Non parlo della grande causa nel grande tribunale dello Stato, ma della giusta osservanza quotidiana del vivere civile, della possibilità di vedere le regole condivise sulla carta, condivise per la strada, nelle case, nei palazzi, negli uffici, su un treno o un aereo. 

I tempi sono... senza prospettiva. Fino a ieri i giovani andavano via alla ricerca di una migliore opportunità di lavoro e vita, con dolore, perché quando si lascia la propria terra c'è sempre, sempre dolore, anche se non rivelato, ma andavano; lasciavano i vecchi, i loro vecchi, spesso ad altre giovani straniere che pure avevano dovuto lasciare la loro terra con dolore, e andavano. Oggi non vanno via solo i giovani, ma anche i vecchi, chi può va a viversi la pensione in un altro paese che spera migliore, dove non dovrà elemosinare una analisi del sangue e potrà comprare serenamente da mangiare e magari risparmiare pure qualcosa da mandare ai propri figli. E anche qui è dolore. Nessuno lascia mai la sua casa senza dolore. Morire lontano dal proprio cielo, dalla prima luce che si è vista nascendo, è una bestemmia che andrebbe punita dal cielo per chi l'ha prodotta. Chi resterà? 

I tempi sono tristi. Gli amici si allontanano, gli amori si fanno difficili, il pensiero è un privilegio che non ci si può più permettere, se non a costo di fatica, sofferenza e emarginazione. 

I tempi sono tristi. Resta solo l'amara consolazione che finiranno. Perché il tempo dell'uomo scorre e non torna. Peccato non ci sia dato sapere in quel momento dove saremo, sarebbe almeno una amara consolazione. 

I tempi sono tristi, e noi possiamo solo continuare ad andare avanti tenendo come unico vessillo la nostra coscienza. Che Dio ci aiuti.  

venerdì 17 settembre 2021

IL VERO SUCCESSO DEL LIBERISMO...

 


 

Il vero successo del liberismo è nell'aver reso ogni ragionamento facile, così che qualsiasi imbecille può sentirsi Einstein e credersi in diritto di parlare.

  



mercoledì 2 giugno 2021

ITACA SORELLA - (un poesia)

Tebe è lontana
e Sparta più s’avvicina. 
Ci resto solo Itaca sorella
e quel suo bianco mare a cui porgemmo
i calcagni rosati e il primo sguardo
sull’infinita vastità del mondo. 

Chi fummo noi, e chi saremo,
cosa ci attrae in fondo a quel mistero
che vive in ogni pallido orizzonte, 
cosa ci spinse 
a tuffarci già nudi a quelle onde?

Tebe è lontana, dal cuore
desiderata, e una tristezza sempre 
ne accompagna il ricordo. 

Tebe è lontana, e langue
nel racconto scolpito dai poeti, 
ricordo dei suoi re
ciechi d’amore, vivi nel coraggio 
delle battaglie, e delle donne mute
aspre d’audacia, e forti di parole 
sfuggite al nodo di colpevoli amori. 

Tebe è lontana.
Sparta riposa nel suo orgoglio stanco
tra il silenzio dei prodi e degli ulivi. 
E il silenzio l’avvolge.

Tebe è lontana,
e Atene è uno scoglio nel mare
dove approdare 
a una salvezza che non è ritorno. 

Tebe è lontana.

Ma c’è una casa piccola nel mare,
un punto bianco dentro l’orizzonte,
casa nuova ed antica
a cui tornare, e raccontare
chi fummo noi
e chi conosceremo
nella breve illusione d’ogni viaggio. 

È Itaca sorella, 
e quel suo bianco mare
che ci diede battesimo alla vita,
è la mano di un vecchio ancora tesa,
il cuore della sposa, 
l’occhio del figlio che ci cerca ancora.

Chi fummo noi, 
e cosa conoscemmo
d’infiniti mondi e d’uomini
e di guerre, 
d’amori e d’abbandoni,
delle notti, le stelle, e dei chiarori
nelle paure, il petto nei fulgori? 

Una piccola casa in fondo al mare,
un punto bianco dentro l’orizzonte,
bere e lavare il viso alla sua fonte,
partimmo solo per poter tornare. 

domenica 9 maggio 2021

ALDO MORO, GIUSEPPE IMPASTATO, LE DUE MORTI CHE NON SONO UGUALI (9 MAGGIO 1978)

 

Sto per scrivere una cosa che ai più non piacerà, ma sento di volerlo fare.

Oggi, 9 maggio, ricorrono i tristi anniversari della scoperta del cadavere di Aldo Moro a Roma e di Giuseppe Impastato a Cinisi in provincia di Palermo (1978).

Come saprete, la morte di Impastato rimase praticamente oscurata dall’assassinio del grande statista democristiano, forse il solo che l’Italia repubblicana abbia avuto, all’epoca in pectore come Presidente della Repubblica.

Non ci fu indifferenza verso la morte di Peppino, come lo chiamavano gli amici, ma l’altro “fatto” fu così sconvolgente, che quasi naturalmente coprì tutto il resto. D’altronde il rapimento Moro aveva tenuto col fiato sospeso non solo l’Italia, ma il mondo intero per ben 55 giorni, mentre la notizia della morte di Impastato arrivava sulle pagine dei quotidiani nazionali come uno dei tanti casi di cronaca e con dinamiche che sul momento erano tutte da chiarire. 


Dovemmo arrivare al 2000, ben ventidue anni dopo perché alla memoria di Impastato fosse restituita giusta collocazione; e ciò avvenne fondamentalmente grazie a un film di clamoroso successo, “I cento passi”, del regista Marco Tullio Giordana,interpretato da un giovane ed esordiente Luigi Lo Cascio.

Da allora il ricordo di Peppino Impastato è associato a quello di Aldo Moro, come due vittime di una stessa ingiustizia, di una stessa negazione di verità e libertà, perpetrate da un lato dalla Mafia e dall’altro dalle Brigate Rosse.

Bene: è su questo punto che è necessario fare chiarezza perché i due fatti non sono simili né associabili, se non che nell’assassinio di due innocenti.

 

Prendo spunto dal primo twitt che mi è capitato sotto mano, quello di Maria Elena Boschi, ma senza alcun intento polemico, il suo valeva, a scorrere l’hastag #AldoMoro, quello di tanti altri. 




 

1 – Mettere sullo stesso piano la Mafia e le BR è un errore oltre che politico, strategico nella lotta a queste due pericolose entità.

Perché le Brigate Rosse, come un qualsiasi altro movimento ideologico, vogliono sovvertire, attraverso una organizzazione e un’azione paramilitare, l’ordine dello Stato, al fine di impiantare un diverso ordine, quello appunto in cui gli appartenenti a quella organizzazione credono. Le BR erano una formazione di sinistra, ma si potrebbe fare esattamente lo stesso discorso per una formazione di destra: il fine di questi “rivoltosi ideologici armati” è sostituire lo Stato vigente con un loro Stato, ed è presumibile, soprattutto nel caso di una organizzazione che trae ispirazione dall’ideologia marxista, che la Mafia non sia contemplata nella sua visione di Stato e di giustizia sociale, essendo la criminalità organizzata per sua stessa natura contraria proprio al concetto di giustizia sociale.


Dal canto suo, invece, la Mafia non vuole sostituire Stato con Stato, ma ha interesse ad avere uno Stato squinternato, sfasciato, disarticolato nelle cui pieghe muoversi per fare i propri affari. La criminalità organizzata vuol assumere potere di Stato soltanto per la gestione delle situazioni che la interessano, il famoso “Stato nello Stato”, ma lo Stato le serve e non vuole perderlo. È come una tenia che divora il cibo con cui il corpo in cui se ne sta nascosta si nutre e senza il quale morirebbe.

Pensate che la Mafia stanzierebbe i fondi per la realizzazione di una qualsiasi opera di pubblica utilità? Certamente no! La Mafia vuole che uno Stato sgangherato stanzi i fondi per la realizzazione di opere pubbliche in cui infilarsi per lucrare.

Mi par dunque chiaro che mettere sullo stesso piano Mafia e Brigate Rosse è un errore.

 

2 - Col doveroso rispetto per Peppino Impastato, i due omicidi, come dicevo, non sono simili né sovrapponibili.

Per quanto sia doloroso il dirlo, la morte di Impastato è una delle purtroppo tante morti di mafia. L’elenco è tragicamente lungo, ed ogni morte ha la sua storia,i suoi caratteri, la propria specificità. Quel che sicuramente ci commuove nella storia di Impastato è la giovane età della vittima, il coraggio della sua esistenza all’interno di una realtà familiare e sociale più che difficile, il tentativo maldestro di manipolare la sua fine come fu per GiangiacomoFeltrinelli, il silenzio che avvolse l’omicidio per troppi anni date le circostanze di cui si è detto. 

E c’è anche da chiedersi: Se non ci fosse stata l’emozione collettiva suscitata dal film, bellissimo film di Giordana, sentiremmo lo stesso trasporto verso questa vittima di Mafia o sarebbe nell’elenco come tante altre? Fermatevi un attimo a riflettere e chiedetevi: ci sono state altre giovani vittime delle criminalità organizzata, e queste vittime avevano in casa membri legati alla società mafiosa, e queste vittime si sono comportate con un coraggio che nessuno di noi avrebbe avuto, sono anche loro andate al macello come agnelli sacrificali spesso nella indifferenza generale? Purtroppo la risposta è Sì.

Che Giuseppe Impastato assurga a simbolo delle tante vittime di Mafia perché attraverso la sua figura possiamo in questa giornata ricordarle tutte è auspicabile, doveroso, importante, giusto, ma… ma l’omicidio di Moro è altra cosa.

 

Sentii dire una volta a Riccardo Misasi che quel 9 maggio 1978 non era morta la Democrazia Cristiana, ma era morta la democrazia in Italia.

Per quanto possa sembrare forte e assurda io capisco oggi che quella frase era profondamente veritiera.

Sulla morte di Aldo Moro, non ostante il grande lavoro delle Commissioni d’inchiesta, della Magistratura e delle FFOO, dei giornalisti, persistono misteri che probabilmente non verranno mai rivelati, almeno fin quando saranno in vita persone che possono essere state direttamente o indirettamente coinvolte nei fatti. Del caso Impastato, invece, sappiamo tutto.

Non è questione di far graduatorie, di creare morti di serie A e di serie B, ma il mescolare le cose porta ad un annebbiamento e ad una corruzione della memoria che ci si deve chiedere a chi e a cosa possa giovare.


Aldo Moro è stato il più grande statista che questa nostra Repubblica abbia mai avuto, ancor più di Alcide De Gasperi, il cui immenso merito fu certamente quello di portare l’Italia fuori dalla guerra, darle insieme ai gradi leader degli altri partiti, Nenni, Togliatti… la sua forma repubblicana, ridarle dignità internazionale, e avviarne la rinascita.

Moro aveva una visione precisa della Nazione, del suo futuro, della struttura che si doveva raggiungere, del compimento della nostra democrazia e anche una visione centrata del passato. Aveva un metodo e degli obiettivi da perseguire, in nome della Patria e della Democrazia in questo nostro Paese. Quel che l’Italia riuscirà a fare in quei trent’anni, dal ’48 al ’78, resterà irripetibile non solo nella sua storia ma anche in quella di moltissimi paesi occidentali. E Aldo Moro è il fondamentale protagonista nel compimento di questo percorso. Non è azzardato affermare che la nostra nazione non ha mai più avuto un ministro degli Esteri del suo valore e con le sue capacità.

E aveva un metodo: di dialogo, di costruzione, di collaborazione, di paziente convincimento e coinvolgimento, e quella che ai più poteva sembrare una sua debolezza era in realtà la sua forza: la calma, la pazienza, la ricerca costante del punto d’incontro e del compromesso. Un metodo che, se vi fermate a riflettere, è praticamente perfetto per un Paese fatto di ottomila comuni, di ottomila campanili, di realtà diverse nelle tradizioni e nelle sensibilità, un Paese che necessita di costantemente del compromesso tra culture diverse, che soffre nella omologazione e si esalta nella diversità sua propria territoriale.

So già cosa diranno altri: “Anche Berlinguer”. Io non vi dico di No, vi dico solo: “Non lo sappiamo poiché Enrico Berlinguer non ha mai avuto responsabilità di governo”, quindi l’accostamento non è fattibile. È parte della narrazione di una parte, ma non può avere nessun riscontro effettivo, è solo basato su i “se”.

Mentre sono fatti le azioni compiute Aldo Moro per questo nostro Paese. Una delle letture che sento di consigliarvi è “Il puzzle Moro” di Giovanni Fasanella, un libro estremamente interessante costruito sui documenti desecretati del servizio segreto inglese. Lì si capisce chiaramente quale possa essere il percorso a ostacoli, la giungla in cui un governante è costretto a muoversi per raggiungere gli obiettivi che si è prefissato, le immense difficoltà che incontra per la sua nazione, il suo governo, per il partito, personali, le migliaia di trappole tese costantemente nel gioco del potere e dei poteri.

Non devo rifarvi la storia di Moro, è davvero pieno di libri, film, documentari, ma il presupposto perché l’azione di un parlamentare sia efficace è che egli si senta libero di agire: può, dopo un caso così clamoroso, un caso nel quale chi voleva perseguire un obiettivo inviso ad alcuni poteri sovranazionali, ha pagato con la vita? può sentirsi davvero libero?

Come l’ultima Commissione d’inchiesta guidata dall’ex ministro Fioroni ha certificato, nella morte di Moro, quel 9 maggio 1978, le BR c’entrano poco o nulla. I misteri persistono, la Commissione non ha saputo ancora dirci “chi fu e chi volle”, ma qualcosa di certo ce l’ha detto, che per esempio il racconto dei terroristi sull’omicidio nel garage di via Montalcini 8 è palesemente falso. E tanto altro.


L’omicidio di Aldo Moro non è uguale a quello di Giuseppe Impastato. E mi si scusi, ma non mi spiace dirlo, perché è una ovvietà, un qualcosa che dovrebbe essere evidente, soprattutto perché, ribadisco, non c’è alcuna volontà da parte mia di creare morti serie A e morti di serie B, solo che sono due cose differenti.

 


Ma allora, può esserci un qualche motivo dietro questo continuo accostamento?

 

3 – Già mi era capitato di notare che una certa sinistra, ex comunista, stava curiosamente proponendosi come biografa di Moro e narratrice della sua tragica fine. Uno degli esempi più limpidi è stato il libro del direttore de L’Espresso, Damilano, che giunse improvviso nel quarantennale. Dice: “Ma vuoi impedire a Da Milano di scrivere un libro?”. Per carità! Mi pare soltanto strano che un ex comunista, direttore del settimanale più di sinistra che questo Paese abbia avuto, decida all’improvviso di scrivere su di un argomento sul quale non mi pare si sia mai applicato particolarmente se non per il suo normale lavoro da cronista, sul presidente di quel partito che la sua storia politica ha sempre profondamente contrastato. Libro pubblicato poi da importantissima casa editrice, con grande spinta pubblicitaria, che diviene improvvisamente punto di riferimento del racconto di quei tragici 55 giorni. Quel volume, a detta di chi lo ha letto, non aggiungeva assolutamente nulla all’Affaire Moro, anzi la vicenda prendeva un che di romanzesco, quasi che il fatto fosse opera di finzione e non realtà (a proposito di “finzione – realtà”, oggi sono anche i cento anni dalla prima rappresentazione dei “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello).

Arriva in questi giorni nelle librerie la nuova fatica letteraria di un altro ex comunista, Walter Veltroni, e guarda caso è un libro sulla fine di Aldo Moro. E va bene, sarà indispensabile anche questo, non lo metto in dubbio; quello che non mi torna è altro: Marco Tullio Giordana è autore anche di un bellissimo film sulla morte di Pier Paolo Pasolini, “Pasolini, un delitto italiano”.

Pier Paolo, l’uomo del “io so”, ebbe a dichiarare e a scrivere di Aldo Moro: “Il meno implicato di tutti”, anche se Pasolini i “gerarchi democristiani” li voleva comunque tutti indistintamente alla sbarra.

Per una vita il Partito Comunista Italiano prima, e le sue varie deformazioni poi, si sono scagliate contro la Democrazia Cristiana, il grande partito popolare cattolico accusato di tutti i mali della Nazione proprio mentre la costruiva quella Nazione. Per far questo il PCI usò una strategia che, come ci racconta proprio Fasanella nel suo “Puzzle Moro” stupì per certi versi lo stesso statista italiano, quando in un incontro con il Primo Ministro inglese - era il 1963 e nasceva il primo governo di centrosinista - ebbe a dire che con il PCI si stava verificando un curioso fenomeno: la ideologia comunista non attecchiva tanto sugli operai come ci si sarebbe aspettato, ma su intellettuali e artisti.

Forse, come la Chiesa centinaia di anni prima, i Compagni avevano subito compreso che il controllo della Cultura era via imprescindibile per raggiungere il potere, e gli effetti di quelle scelte strategiche ce li ritroviamo ancora oggi pesantemente sul groppone.

 

L’assassinio di Moro da parte delle BR pone un serio problema ai Compagni: la vituperatissima DC ha adesso un “santino”, un uomo intoccabile, una figura che per il sacrificio può solo essere mostrata al popolo nel suo lato positivo di grande statista, uomo buono, agnello sacrificale sull’altare della democrazia italiana.

Lui, Moro, “Il meno implicato” per imprimatur dell’altro agnello sacrificale, PPP, non può più essere attaccato. Si può attaccare il suo partito, gli altri uomini del suo partito, come Andreotti, Cossiga, Forlani, ma Moro no. E non basta, la domanda che si consolida è: se il presidente fosse uscito vivo da quei 55 giorni, la Democrazia Cristiana sarebbe stata la stessa? Quel partito che dalla opposizione si era cercato per anni di demonizzare, aveva ora un punto di assoluta purezza.

Nella narrazione degli oppositori questo è un serio problema. Potrebbe essere facile, partendo da quel punto di purezza mettere in discussione tutta la narrazione, tutto il male che si è detto e si continua a dire degli anni di governo della Democrazia Cristiana. Se il racconto frana, franano con esso i suoi costruttori.

 

Ma ecco che alla fine degli anni ’90 arriva un film e offre una possibilità di riscatto per “i narratori”, appunto “I cento passi” e la storia di Impastato.

Le due morti sono dello stesso giorno e una ha oscurato l’altra, ma se le metto insieme e costruisco bene la nuova narrazione, come spesso accade la gente non sarà portata a notare le differenze, non tenderà a “elevare” il “Caso Impastato” all’ “Affaire Moro”, ma farà scendere l’Affaire al livello del Caso.

Come? Ma è semplice: basta mettere le personali battaglie dei due sullo stesso piano, convincere le persone che Moro e Impastato combattevano per un comune obiettivo (lungi ovviamente dallo spiegare quale fosse), basta equiparare le BR alla Mafia (tanto “terrorismo” può comprendere qualsiasi cosa), basta condire il dolore e il rimpianto di quelle parole che vogliono dir tutto e nulla, come Libertà, Ideali, oppure Combattere l’odio, Contro la violenza… in una genericità, profondamente colpevole, che fa perdere di senso ad entrambe le storie.

In qualche modo, accostare la drammatica fine di Impastato, con la tragica fine di Moro è strumentalizzare Impastato per screditare Moro.

Ed è forse in tal senso che possiamo inquadrare lo sforzo degli ex “Compagni” nel volerci raccontare LORO la storia del presidente dell'odiato partito Democristiano.

Appropriarsene per fare in modo che tutta la narrazione resti ancora una volta nelle loro mani. 

Ma quelle due morti non sono uguali: da un lato è stato assassinato un ragazzo puro e coraggioso, dall’altro una nazione, che ancora oggi, quarantatré anni dopo cerchiamo faticosamente di ricostruire.   

lunedì 5 aprile 2021

IL POETA CHE HO CERCATO DI ESSERE (informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta) - 1

OGGI, 5 APRILE 2021,MI VEDO COSTRETTO A RIPUBBLICARE LA PRIMA PARTE DI QUESTO MIO SCRITTO SU ALFONSO GATTO. NON SO PERCHÉ ERA SPARITA. VABBÈ, PAZIENZA. A TUTTO SI RIMEDIA. LE ALTRE PARTI PARE CI SIANO TUTTE, SIC



Comincio qui, come preannunciatovi un paio di post fa, la pubblicazione di un mio scritto del 2009 che riuscì mai a trovare un editore. Per un periodo provai chiedermi il perché, poi lasciai perdere. Il lavoro, che intitolai "Il poeta che ho cercato di essere (informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)", è interamente dedicato ad Alfonso Gatto; più in generale, poi, è una personalissima riflessione sulla poesia. Alfonso Gatto, come potrete vedere nel link, nacque nella mia Salerno nel 1909; morì, causa un incidente stradale, nei pressi di Orbetello, nel 1976. Il testo, dunque, era legato al centenario della nascita. E' composto da una premessa e da quattro "giornate"Non è breve! Procederò dunque a puntate, come un vecchio romanzo d'appendice, fidando nel fatto che sarà comodo e semplice (almeno in questo la tecnologia ci aiuta) tornare alle puntate precedenti, che di volta in volta proverò a risegnalarvi. Vi auguro buona lettura. 


Le foto che pubblico - ma il web ne è pieno - sono state scattate dall'amico, e grande fotografo, Peppe Rampolla. 
Sono alcune delle ultime del poeta.

Tutte le poesie di A. Gatto sono pubblicate da Mondadori. 













Alfonso Liguori

Il poeta che ho cercato di essere
(Informale discorso sulla poesia e in ricordo di un poeta)



PREMESSA

Questa che vorrei definire “conversazione”, in realtà non lo è. È piuttosto una sorta di monologo, anche se non teatrale. Nasce da una serie di incontri avuti nel 2006 con gli studenti di alcuni Licei di Salerno e provincia, sulla poesia e l’attività giornalistica di Alfonso Gatto, nel trentennale della scomparsa.
Come dichiaro nella “conversazione”, non sono uno studioso, ma un appassionato dell’opera di Gatto, un lettore disordinato ma accanito (seppure lento), e per affrontare “le belve”, “la gioventù bruciata”, come affettuosamente chiamo gli alunni, ovviamente mi preparai. Non bastava la sola passione, dovevo dare ai miei pensieri una organicità, il senso di un discorso mirato e articolato.
Scrissi, quindi, delle note. Ma dato che amo, in questi incontri, chiacchierare con i ragazzi e raccogliere da loro stimoli o magari ulteriori informazioni, e possibilmente domande cui mi sarà difficile rispondere, appositamente lasciai dei vuoti. I loro quesiti hanno sostenuto, riempito e migliorato le mie idee su Gatto. Queste pagine, tre anni dopo, nel centenario della nascita, sono l’elaborazione, il frutto di quegli incontri.
E quei ragazzi, di cui non ricordo più non dico i nomi, ma i volti, confusi con quelli di tanti altri con i quali ho chiacchierato di Dante o Pirandello, sono, in un certo qual modo, co-autori di queste pagine. A loro sono grato, e non posso fare altro, oggi, che portarli tutti nel cuore con il generico nome di studenti, categoria verso la quale troppa disattenzione ha ormai questo nostro disgraziato Paese.















I giornata

11 aprile 2009
Aula Magna dell’Istituto Magistrale “Regina Margherita”
Piazza Malta, Salerno

… «Buongiorno.
Mi chiamo Alfonso Liguori. Sono un attore, professionista (oggi, purtroppo, va sottolineato), diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, dove un anno mi è stato anche concesso l’onore di insegnare “Metrica e principi di dizione poetica”, lavoro in teatro da più di vent’anni e posso dire con buoni risultati, mi sono laureato in Lettere presso l’Università di Salerno, ho studiato pianoforte e canto lirico, e sono diplomato in Teoria musicale e Solfeggio per strumentisti… Indegnamente, sono anche un giornalista.
Dico questo, non per impressionarvi, per vantarmi, per farmi bello ai vostri occhi, ma  perché desidero sappiate che tutto ciò che so, le esperienze che ho accumulato, “il mio bagaglio” come si dice, lo metto qui a vostra disposizione. Non sono un professore, non ho registri e non metto voti, quindi gradirei che la nostra discussione fosse libera e serena. Chiedete ciò che volete. Quello che so ve lo dico, e per quello che non so… beh, vedrò di organizzarmi per i prossimi incontri.
Sono qui per parlarvi della poesia di Alfonso Gatto, di cui quest’anno ricorre, come certamente saprete, il centenario della nascita. Gatto, infatti, nasce a Salerno nel 1909, per amor di  precisione il 17 luglio del 1909. Lo faccio con grandissimo piacere; ma è bene che vi dica ancora un’altra cosa: non sono uno studioso, un critico, un letterato, ma solo un appassionato.
La poesia mi piace, mi piace molto, è uno dei grandi piaceri della mia vita, insieme alla letteratura in genere, alla musica, al vino, allo sport - su tutti il ciclismo - e, ahimè, alle sigarette (ci sarebbero anche le donne, ma quella è un’altra storia). E ci sono tre, quattro poeti che amo in maniera speciale: Dante sopra tutti, poi Borges, Montale… e Gatto. Sappiate anche subito che detesto Leopardi! È una pecca? Non so che farci.
Ora, io vi pregherei di non prendere appunti, ma di seguirmi nel discorso, anche se vi parrà che salti di palo in frasca. Sono abbastanza certo (è la consuetudine a questi incontri a dirmelo) che alla fine riannoderemo tutti i fili.
Grazie.

“Ringrazio qui il signor sindaco, che porta il mio stesso nome (…) ho avuto la fortuna di avere, soprattutto al ginnasio, un grande maestro che era Alfonso Donati – si chiamava anche lui come noi – e che voglio qui ricordare (...)”.
Cominciamo subito con una citazione e, perdonerete, con una digressione molto personale. Le poche righe che ho letto sono tratte dal discorso tenuto da Gatto durante un incontro avuto il 15 marzo del 1965 (ero nato da poco più di due mesi) con gli alunni del Liceo “T. Tasso” di Salerno dove era stato studente. Su questo discorso torneremo.
…anche io mi chiamo Alfonso, ed in realtà, penso di aver cominciato a leggere Gatto… per l’omonimia. Cerco rapidamente di spiegarmi: mio padre Gino è un giornalista, oggi in pensione dopo trentatre anni a “Il Mattino”. Molti suoi amici, presidenti di circoli o associazioni culturali, sapendo che aveva un figlio attore, gli chiedevano se potevo andare a leggere delle poesie nelle varie manifestazioni che organizzavano. Spesso erano poesie di Gatto. E secondo me, oltre l’amicizia con mio padre, entravano inconsapevolmente in gioco l’omonimia ed il comune luogo di nascita. Magari è tutta una mia fantasia, ma cosa c’è di più divertente delle fantasie che ci costruiamo da soli?
Voglio svelarvi una cosa degli attori: spesso la loro cultura è determinata più dalla necessità che non dalla curiosità. “Cos’è la cultura?”, mi sono chiesto molte volte. Credo di poter dire che sia una forma della curiosità, combinata con un po’ di memoria e di capacità associativa. Per gli attori, invece, funziona molto il meccanismo del “si deve fare”. Non perché non siano “curiosi”, anzi, in genere più che “non curiosi” sono “pigri” (ma questa è un’altra storia… come dice Mustache), ma perché il piacere della conoscenza deve ineluttabilmente combinarsi con le esigenze lavorative, e dunque di quotidiana sopravvivenza. Quindi, la “necessità di fare” mette in moto sistemi esplorativi che ti portano ad assorbire le più svariate informazioni pur di portare a compimento il lavoro che ti viene assegnato.
Dunque, mi chiesero di leggere in pubblico Alfonso Gatto.
Ammetto: lo conoscevo poco. Il nome, il luogo di nascita, il fatto che fosse un poeta importante del nostro ‘900, che era stato per molti anni a Milano, ma oltre questo…
Tale combinazione di casi mi ha dunque condotto ad aprire per la prima volta nella vita, parlo di almeno una ventina di anni fa, un volume di sue poesie, per l’esattezza: “La forza degli occhi”, che mi fu regalato da mio padre.
“Ma cos’è il caso?”, si chiede Borges, “Forse ciò che chiamiamo caso è soltanto la nostra ignoranza della complessa meccanica della casualità”.
Un dato certo lo avevo: mio padre, Gatto lo aveva conosciuto, e talvolta ci aveva anche cenato assieme. Ovviamente al “Vicolo della neve”, la più antica trattoria di Salerno - questo certamente lo sapete – che il poeta amava profondamente e a cui ha dedicato anche una commovente poesia:

È nella notte d’inverno
il pallido azzurro fornaio
disegnato di vene,
la luna a mezzo febbraio,
quel parlare di cene.
Il vicolo aveva la neve
del dolce nome granito,
un uomo triste che beve
il suo vino appassito.
Il vicolo aveva il balcone
della puttana smargiassa
e quell’odore di nassa
di polpo bollito, e limone.

… eccetera eccetera.

È bella. Magari poi la leggiamo.
Tornando a noi. Non sto dicendo che Gatto e mio padre fossero amici, ma solo che si sono conosciuti, ed io devo confessare che a volte, soprattutto nei periodi in cui ne analizzavo i brani per una qualche lettura, mi è capitato di scoprirmi a scrutare gli occhi di mio padre cercando quegli occhi che avevano visto un poeta. Un po’… scusate, mi viene da sorridere… come il protagonista de “Il grande Gatzby”, il romanzo di Fiztgerald. Avete letto “Il grande Gatzby”? No?! Beh, leggetelo, è un grande romanzo, una meravigliosa e straziante storia d’amore.
Il protagonista, Gatzby appunto, vive un profondo ed infelice amore. C’è un passaggio splendido, dove lui guarda i volti delle persone che passano, pensando che forse qualche volta quei volti hanno visto la pallida magia del viso di lei, di Daisy. È un passaggio veramente piccolissimo, ma straziante di tenerezza, e credo ci dica a quanto e a cosa può arrivare il desiderio e l’amore che possiamo provare per una persona.
Secondo me ha ragione Eliot, quando dice, nei suoi scritti su Dante, che i poeti hanno il compito di trovare le parole per cose o sentimenti che non sono stati ancora espressi. Voi siete giovani – ma certo non “inesperti”, sic! – e se ci riflettete, vi accorgerete che vi sarà già capitato di cercare la persona amata nelle cose più improbabili… così, tanto per sentirvi vicini a lei e sentirvela vicino.
E sto parlando di una donna (o di un uomo, ognuno fa come gli pare), ma il meccanismo credo non sia diverso rispetto a tutte quelle persone o situazioni che per ciascuno di noi sono vitali, anche un poeta. È il desiderio, credo, di concretizzare, materializzare il legame che la loro opera ha creato con noi, la voglia di vedere fisicamente uscire dallo specchio quella figura in cui ci vediamo perfettamente riflessi, e rivelati a noi stessi.
I poeti sono importanti, e rari! Aveva ragione Moravia quando al funerale di Pasolini urlò che avevamo soprattutto perso un poeta, e che non ne nascono molti in ogni secolo; di poeti veri, credo fermamente volesse intendere. Sono importanti perché guardano lì dove noi non guardiamo o non abbiamo il tempo di guardare, presi come siamo dal vortice della quotidianità, e perché spesso, in questo loro guardare, vedono prima di noi quello che accadrà, sentono, percepiscono gli umori nell’aria. E sopra tutto sono importanti, credo, perché ne abbiamo bisogno, bisogno come l’acqua e l’aria, bisogno perché è il canto dell’anima che si fa vivo in loro. E quel canto della loro anima è il canto della nostra stessa anima.
Il poeta è come una consapevole vittima sacrificale, è come uno che si dona alla poesia, che accetta in toto una vocazione, una chiamata, perché l’umanità, l’umanità di quello specifico tempo,  ha bisogno di qualcuno che ne intoni il canto, che svolga quel compito. Come si dice?: è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare.
In questo senso, Gatto e proprio il nostro uomo.

E dunque...
…In tutte le mie letture dell’opera di Alfonso Gatto, fatte per piacere o come dicevo per lavoro, ci sono almeno un paio di espressioni che mi hanno ripetutamente colpito. Parlo di “espressioni” perché non sempre si tratta di versi e, francamente, adesso non so trovare un’altra  definizione.
La prima si trova in “La risposta di Alfonso Gatto”. Il testo è la trasposizione di un discorso che Gatto tenne in occasione della manifestazione, sollecitata dai giovani intellettuali del Circolo Democratico di Salerno, ed organizzata in suo onore il 10 marzo 1963 dall’allora sindaco Alfonso Menna nei saloni di Palazzo di Città.
Ad un certo punto, Gatto dice: “La poesia forse parla poco ai contemporanei; nasce essa stessa dal desiderio di sopravvivere, di parlare a quelli che verranno dopo, ma io so che tornando in quest’aria, sotto questo cielo, tra di voi, bevendo la nostra acqua, io sono nel sangue, alle radici, come voi, inspiegato anche sul come sono: altrimenti forse non sarei nemmeno quel piccolo, quel tanto di poeta che ho cercato di essere.” E più avanti: “E forse il sogno del piccolo e del povero poeta che io sono è che un giorno, tra molti anni, diciamo, un ragazzo come me, con la testa pesante, sul collo magro, passi per questa marina e pensi anche lui alle proprie parole che lo ricorderanno un giorno, pensi anche lui che per amare dovrà dare dolore a suo padre, a sua madre, alla sua città, partire.” Ancora: “Ora in conclusione, voglio dirvi che l’onore che mi avete dato non va tanto alla mia persona, ma va alla poesia, che io, con le mie forze, quali esse siano, rappresento”.
Fin dalla prima lettura non ho mai pensato che in queste parole ci fosse ipocrisia. Mi colpiva, e mi colpisce, quell’insistere sul piccolo, povero poeta, su quel tanto di “poeta che ho cercato di essere”, e sull’onore che va “alla poesia che rappresento”; ma ancor più bella è l’immagine sognata del ragazzo che pensa alle proprie parole. Non so dirvi perché, ma mi è sembrato subito chiaro che l’onestà intellettuale del poeta passava attraverso quel ragazzo.
Non è un’immagine nuova, appositamente coniata per quel discorso tenuto a cinquantaquattro anni. Nella poesia “La valigia” Gatto scrive:

Porto la mia valigia di segreti,
l’ebbi da un nome che al passarmi accanto
s’ebbe il mio nome e proseguì la strada.
(…)
Lascio la mia valigia di segreti
a un altro nome che al passarmi accanto
s’ebbe il mio nome e proseguì la strada.

E ne “Lo stellato”, poesia tenera e dolorosa al contempo, costruita su dolcissimi settenari, semplici e doppi:

Quale immagine vedo oltre di me che viva
in quest’ultimo sole,
quale giorno infinito?
(…)
Così per l’infinito della memoria il nome
mi resti in ogni passo che si ferma vicino
e s’allontana come salendo al mio ricordo.
Basta l’umile accordo di voci e di parole
che mi dica poeta, sarò di chi mi vuole
nel vento della chiara notte che va con lui.

C’è in questi versi quella splendida musicalità che fa di Gatto uno dei miei poeti preferiti. Ma lo è non solo per la musicalità, anche se voglio confessare che spesso, a prima lettura, capisco ben poco, a volte proprio nulla, ma il fascino di quei suoni mi è così caldo e avvolgente… Fascino, da fasciare, avvolgere… a volte basta il suono per farmi sentire “avvolto” in un caldo abbraccio. Cos’è abbracciarsi se non il desiderio di respirare insieme? Spero che alla fine di questa nostra chiacchierata possa fare scoprire anche a voi questa meravigliosa sensazione.
Ma andiamo avanti. Anzi, indietro. Torniamo al discorso agli alunni del Liceo Tasso, dove dice: “Ecco, voi avete davanti a voi un poeta, un piccolo poeta, senza modestia ve lo dico, ma basta esserlo, ed è già qualcosa essere un piccolo poeta, è già qualcosa, non per la vanità di esserlo, e nemmeno la responsabilità di esserlo, è qualche cosa perché la vita è nella presenza dei poeti, che non danno soltanto testi alle scuole, ma suggerimenti alla natura, suggerimenti alla storia, di cui la storia non tiene conto. I poeti sono dei potenziali di vita, sono immagini della vita, sono forze, energie della vita. In questa vita dove tutti vogliono avere, essi rappresentano l’essere. (…) Voglio aggiungere soltanto che io sono tornato con molta commozione in questa vostra e mia scuola. Ci sono tornato come un irregolare (i poeti da molto tempo sono considerati irregolari) che ha, però, la regola nella propria coscienza, ha la regola della consapevolezza di non aver mai chiesto alla poesia e alla cultura di essere mediana delle proprie ambizioni e delle proprie velleità, di averla vista come un documento, come una traccia, come la prova del nostro essere migliori persino degli ideali, per i quali ogni giorno combattiamo. (…) io vi ringrazio tutti, col cuore commosso, con l’animo modesto di un irregolare che riprende la sua strada.”
Il Liceo Tasso, in occasione del trentennale della morte, ha recuperato questo discorso, magicamente rimasto impresso in una vecchia bobina che chissà chi aveva registrato. Ne hanno fatto un cd, che ovviamente ha interessato pochi all’esterno della scuola, invece era una splendida operazione. Sentire la sua voce è molto affascinante e si ha la netta sensazione che queste parole, certamente improvvisate, siano comunque il frutto di una meditazione costante sulla poesia e sul suo senso. Non credo possa essere diversamente. Soprattutto se si estrapolano frasi come: “suggerimenti alla natura” (Oscar Wilde dice che è l’arte ad inventare la natura, ed in un certo qual senso è vero: pensate a chi ha effettivamente e diversamente guardato un tramonto prima che un poeta lo abbia cantato); “suggerimenti alla storia, di cui la storia non tiene conto” credo additi proprio la capacità dei poeti di sentire il futuro, e la incapacità degli uomini di ascoltare, magari per evitare disastri; o “i poeti sono potenziali di vita, sono immagini della vita, sono forze, energie della vita”: non è la vita ad appartenere all’uomo-poeta, ma lui ad appartenere alla vita, e in questo appartenere egli è un’energia potenziale che troppo spesso il consesso degli uomini si rifiuta di sfruttare, ecco perché – credo voglia dire - i poeti sono sempre più considerati degli irregolari. Essi danno fastidio. E chiude, poi, ancora una volta, con l’immagine del poeta che si rimette sul suo ineluttabile cammino. 
Ho citato principalmente, finora, del detto-trascritto, ma nella prefazione a Poesie d’amore, datata “luglio ‘72”, scrive: “per conto mio, riconosco che nei miei testi non c’è nulla d’immaginario e di casuale, che le persone chiamate, invocate, perdute, hanno un nome, e il merito di aver amato, ascoltato, protetto un uomo intrattabile, e insieme arreso alla pietà, quale il poeta è”. Dice quale il poeta è, non quale io sono. 

(continua...)