lunedì 25 dicembre 2017

Caro Papa Francesco, dov'è finito il libero arbitrio?

Caro Papa Francesco,
la sua omelia durante la messa natalizia non mi è piaciuta per niente.
Tenterò brevemente, Santità, di spiegarle il perché.
Il suo discorso era tutto incentrato sulla questione migranti-accoglienza.
A parte il fatto, Santo Padre, che questa sua per i migranti sembra diventata un’ossessione pari soltanto a quella della sig.a Boldrini, la quale dice, afferma e conferma di essere di sinistra, ma ancora aspettiamo di sentirle dire una parola a favore dei lavoratori. Ma lasciamo stare, Santità, ché non è tanto il contenuto del suo discorso ad avermi disturbato.
Lei magari non mi crederà, ma ho una vaga idea di cosa possa essere lo spirito cristiano di carità e accoglienza. Ebbene, il mio pensiero è andato alla parabola dei talenti. Credo la conosca: Matteo 25,14-30
In quella parabola Gesù ci dice che il padrone non loda soltanto il servo che ricevuti cinque talenti ne ha riportati altri cinque, ma anche quello che ne ha ricevuti due e ne riporta altri due. La punizione è solo per il servo che avuto un talento riporta esattamente ciò che gli è stato consegnato.
Non è una parabola difficile da comprendere: Dio ti affida un qualcosa e tu devi essere bravo a farlo fruttare secondo le tue forze e le tue capacità. Solo chi non “porta frutto” viene punito.
Orbene, Santo Padre, dalla parabola mi appare chiaro che in tutte le situazioni ciascuno di noi può e deve dare il proprio contributo. Ma da nessuna parte, mi sembra, Cristo stabilisce che esiste la modalità di contribuzione unica, assoluta e perfetta cui tutti devono rapportarsi per essere nel giusto. Non è scritto, cioè, da nessuna parte che si è cristiani solo se si procede in uno specifico modo, modo che, oltre tutto, pare stabilito da altra parte e a priori, come una sorta di modello in cui rientrare, una forma alla quale omologarsi.
Il che vuol dire, a mio modo di vedere – se non ci fossimo capiti – che ciascuno di noi, e di rimbalzo ciascuna comunità, quindi ciascuno Stato, deciderà in qual modo fare l’accoglienza, secondo le proprie capacità, possibilità, organizzazione, fattori contingenti, e anche libera volontà. Si potrà discutere della efficacia e/o validità dei vari comportamenti, ma nessuno può arrogarsi il diritto di appioppare etichette a nessuno.  
Più che cristiano, mi scusi Santità, questo suo sembra un pensiero da società puritana, dove “chi fa” è sempre con l’occhio attento al giudizio esterno, e chi osserva è perennemente pronto a giudicare, e i comportamenti dell’individuo non sono più effettivamente liberi.
Questo accadeva anche nella nostra società cattolica, mi si dirà. Appunto: ci abbiamo messo tanto a liberarcene che non si vede perché dovremmo tornare indietro, o ci si voglia far tornare indietro.
Ecco, il suo discorso non mi è piaciuto per questo, perché mi sono sentito come costretto, messo in un angolo e giudicato sulla base della mia capacità di omologarmi o no a comportamenti preordinati e non so nemmeno da chi, certo non da Cristo. Perché mi pare in linea con quel pensiero globalista che pone sempre i propri criteri al di sopra delle singole storie, che ha stabilito prima e sempre qual è il bene e qual è il male, che usa frasi come “esportare la democrazia” come se esistesse un unico modo, giusto, di organizzare la democrazia mentre tutti gli altri sono sbagliati, e che in questo caso mi dice che esiste un unico modo di comportarsi con il migrante altrimenti non sei… cristiano, civile, generoso… Un modo, insomma, che oltre tutto il resto, gioca sul mio senso di colpa.
Mi perdonerà, Santo Padre: io non rifiuto le sue parole, ma il meccanismo perverso che percepisco esservi dietro, indipendentemente dalla sua buona fede che do per certa, e non intendo lasciare che altri sensi di colpa mi riempiano la vita, ho già i miei, e pesano (come nelle vite di ciascuno di noi).
Se non ricordo male è Cristo stesso ad averci lasciato una responsabile libertà di scelta, ad averci posti dinanzi al senso del dubbio e ad averci chiesto comportamenti unici e non da gregge, comportamenti da adulti. Non aderirò al pensiero facile e omologato, mi perdoni. Accetterò il rischio di sbagliare.
Con osservanza.

giovedì 14 dicembre 2017

Attori, i dilettanti al potere

Nell'attesa che si cuocia la pasta, mi vengono in mente una serie di piccoli pensieri dei quali sono certo vi fregherà poco o nulla.
Per esempio un fatto che va mostrandosi con sempre maggiore evidenza e che riguarda il mio lavoro.
Quella dell'attore è una professione/mestiere che come il buon artigianato appreso a bottega, viene passato da secoli di mano in mano. Negli ultimi tempi si assiste a uno svuotamento della professionalità attoriale (mentre cuoce la pasta non posso dirvi il perché, ma prometto che ci torno), svuotamento che ha anche un movente politico-culturale (di bassissima levatura), il risultato di questo impoverimento della professione è che i dilettanti sono ormai sullo stesso piano dei professionisti, e con il mercato economico alla canna del gas, sono anche avvantaggiati in quanto possono praticare prezzi più bassi, quando proprio dedicarsi gratuitamente.
Ma non basta: la volontà di far assurgere il dilettante a categoria "professionalmente" riconosciuta si rileva in un altro dato: sono giunti agli onori della cronaca, alla direzione di centri di cultura teatrale di primaria importanza, al rispetto diffuso da parte di addetti ai lavori e non, una serie di dilettanti spacciati per professionisti.
Che siano dilettanti, cioè che abbiano imparato facendo da soli (quindi non conoscendo davvero le regole ed il procedere della professione se non per sentito dire, come il pittore della domenica rispetto a chi viene dalle Belle Arti), lo si evince dal fatto che leggendo i loro CV ci si accorge che il mestiere non lo hanno mai appreso, da nessuno. Intendo: attori che hanno nessuna formazione, di alcun tipo, né di scuola né di gavetta, registi che non hai mai fatto l'assistente a nessun altro regista. 
Bravi, siete "nati imparati", come si dice dalla mie parti!
No, sono solo cialtroni dilettanti che hanno approfittato spesso di correnti politiche e di ondate culturali per costruirsi una rendita di posizione. Alcuni di loro vivono un breve periodo, grazie al cielo, poi spariscono; altri ce li dobbiamo tenere come grandi scienziati della professione teatrale per decenni grazie al potere politico che li protegge o alla disonestà intellettuale di una certa critica anche essa legata a doppio filo con la politica. Cosa esercita la politica tramite costoro? Una cosa di gran conto cui si presta poca attenzione: il predominio culturale. L'esercizio delle arti, secondo la nostra Costituzione è libero, il loro "orientamento" no, con buona pace delle "anime belle" che credono ancora alla purezza dell'artista.
Ci si chiederà perché i colleghi, quelli veri, non denuncino questa situazione. Facile: l'attore è come la prostituta, ricattabile in ogni momento, per cui è tendenzialmente prono al potere, soprattutto al piccolo potere che può assicurargli la sopravvivenza quotidiana almeno sul breve periodo. Quando poi un attore diviene famoso, il meccanismo si fa talmente grosso e le relazioni talmente intrecciate che a maggior ragione non si parla, onde evitarsi problemi di vario genere che giungono fino all'ostracismo: il Potere è vendicativo.
Ecco perché, qui nomi non ne leggerete, ed anche perché in questo modus vivendi dell'attore è contemplato il concetto di "vai avanti tu, io forse vengo dopo...". Mi sono già scottato altre volte. Basta, grazie.
E poi perché i nomi, amici cari, li sapete. E se non siete certi, andate sulla rete a leggere i Curriculum!
Bene, la pasta pare sia cotta, controllo... e intanto vi saluto.