domenica 28 gennaio 2024

DIALETTO E LINGUA ITALIANA, LA CESURA NECESSARIA - un esercizio da attori e non solo

Un giovane Vittorio Gassman
Il grande attore catanese Angelo Musco











Da anni ormai, assisto a un nuovo e sconcertante fenomeno: la nostra bella gioventù non sa più parlare il dialetto, non lo sa più leggere e lasciamo perdere lo scrivere. 

Parlo per esperienza diretta, nella mia regione, la Campania, ma lo stesso fenomeno ho rilevato negli ultimi anni girando per i vari territori italiani, dal Piemonte alla Puglia al Lazio alla Sicilia...
La gioventù di oggi, virilmente impegnata ad apprendere l'inglese (ma non ci son colpe da attribuire alle lingue straniere, visto che tanto, alla fine, non sanno nemmeno l'inglese), non conosce più il proprio dialetto e generalmente parla un italiano con forte cadenza regionale, e un dialetto improbabile che nulla ha a che vedere con la lingua dei padri; questo quando lo parlano il dialetto, perché spesso non lo conoscono proprio, fino al punto che un ragazzo torinese mi chiese un giorno cosa volesse dire: "Cerea". Mi cascarono le braccia: cerea, il saluto torinese per eccellenza, noto a tutta l'Italia, che pure Totò usava nelle sue boutade, era sconosciuto a un figlio della Mole. Bene, andiamo oltre. 
Non parliamo del dialetto scritto! Il napoletano, per esempio, è massacrato sui social da una bufala divenuta regola, anche col sostegno di un noto film con Alessandro Siani e Claudio Bisio, secondo la quale le vocali finali in dialetto napoletano non ci sono e non si scrivono. E a nulla vale il mostrare a queste "capre sociali" i testi di Scarpetta, Di Giacomo, Viviani, Eduardo, Patroni Griffi, Moscato, fino a Pino Daniele, mostrargli che quelle benedette vocali ci sono, sono scritte e chiaramente leggibili! Niente: per loro non esistono, sia fatta 'a voluntà d' 'o cielo! 

Questa stupidità collettiva è costruita sul più clamoroso degli inganni di questi tempi: la possibilità della oggettività. Quella convinzione, figlia del politicamente corretto, secondo la quale una parola, ad esempio, non ha espressioni, sfumature, non si accompagna all'intenzione, per cui se la usi o sei nel giusto o sei da condannare, quella oscena idea, insomma, per cui si vanno riscrivendo i classici "per non offendere" non si sa chi; nel nostro caso, l'idea è che il segno scritto abbia un unico ed universale significato. Dunque: per far comprendere alle capre sociali che non è vero, tocca ricorrere proprio a quella lingua che credono di parlare ma nella quale al massimo comunicano - perché c'è un solo modo di parlare davvero una lingua, ed è esserci nati dentro, poiché non puoi mai disgiungere lingua da corpo e corpo da lingua, ma per ora lasciamo stare, magari ci torniamo in un altro post - dicevo che per fargli comprendere l'inganno si deve ricorrere all'inglese e chieder loro molto nettamente: "questo segno grafico che qui vedete 





 


si pronuncia in inglese come in italiano?
E quest'altro segno grafico - perché una lettera scritta è soltanto, e soltanto, e soltanto, un segno grafico cui per convenzione corrisponde un suono, nulla più - quest'altro segno grafico si pronuncia allo stesso modo nelle due lingue? 







Ecco che magicamente alle nostre caprette si illumina lo sguardo e cominciano a capire: in dialetto, nel nostro caso in dialetto napoletano, e in italiano quel tal segno grafico non ha la stessa corrispondenza sonora, per cui la "e" di perdere, in italiano!, non ha la stessa pronuncia della "e" in perdere, in napoletano!
E se gli fai ben ascoltare proprio la pronuncia si accorgono che alla fine di quel perder un suono c'è, che quella "e" che loro troncano in realtà ha un suono corrispondete che esiste nettamente, altrimenti "la dominante" sonora della parola sarebbe una durissima "r". E qui, un primo passo è fatto!

Chiariamo ancora una volta un punto, per chi non lo avesse ancora compreso: quando parlo di "parlare italiano" o "parlare dialetto", mi sto riferendo specificamente alla pronuncia, a quella cosa nota come "dizione". Dizione che offre un interessante risvolto socio-culturale: quando dici che sei un attore, in tanti ti guardano ammirati e prima poi ti chiedono quella simpatica cosuccia: "ma dunque tu parli con la dizione? Che bello, che cosa interessante deve essere". Beh, decisamente interessante, dato che dopo, quando minimamente provi con modalità scherzosa a correggere la dizione di una parola al tuo interlocutore, quello fa spallucce, ti guarda a volte anche offeso e magari ti spegne ogni entusiasmo dicendoti che tanto lui mica deve fare l'attore! E va bene, e anche qui andiamo avanti. 

L'aspetto interessante, per quella che è ad oggi la mia esperienza sia come attore che come docente di attori in erba, è che, oltre al valore culturale che ovviamente ogni dialetto porta con sé indipendentemente dal fatto che abbia o no una sua letteratura, è che una buona conoscenza del dialetto, del proprio dialetto, e magari, ove ce ne sia la possibilità, di più dialetti, rafforza, anzi migliora la pronuncia dell'italiano. È come se nella nostra mente si tracciasse una linea netta, un confine che separa i due mondi, prendendo coscienza dell'essere pienamente da una parte o dall'altra, senza mescolare questi due "Stati". "Stati" che si vedono, si riconoscono, interagiscono, si scambiano informazioni preziose, che possiamo anche decidere di mescolare, ma sarà sempre, una volta appreso il processo di separazione, una commistione o divisione frutto della nostra volontà. 

Nel caso della letteratura campana, o per meglio dire napoletana, è ben nota la sua vastità, il valore elevato degli autori, nonché il ricco patrimonio musicale che è forse il primo e più importante veicolo di trasmissione di quel dialetto. Perché questo è un altro aspetto fondamentale che non dobbiamo ignorare: separare e imparare a utilizzare dialetto e italiano è questione di suoni, è questione di orecchio, di "elasticità uditiva" e dunque espressiva; più ricco sarà il nostro dialetto, più ricco il nostro italiano, maggior quantità di suoni avremo a disposizione, e questo, per chi vorrebbe esprimersi oltre che col corpo anche con i suoni, è un aspetto quasi di vitale importanza. 
Assistiamo, infatti, oggi, anche ad un impoverimento, oltre che lessicale, anche espressivo delle nuove generazioni, in questo non aiutati per nulla dal tipo di musica che li bombarda, il rap e tutte le sue derivazioni (sulle quali sospendo il giudizio), che certamente si basano su una elementarissima (voglio essere gentile) escursione sonora. I giovani aspiranti attori, scoprono con meraviglia la quantità enorme di sfumature sonore che hanno a disposizione. Il mio consiglio a loro è prima di tutto quello di ascoltare tanta buona musica, a cominciare dalla classica, onde allenare l'orecchio, e la mente, alla infinita gamma sonora che possono adoperare e, a seguire, all'allenamento con i dialetti, con il proprio e con le altre cadenze regionali, con le quali possono giocare - e in questo caso sì, giocare - per ritrovare il maggior numero di suoni possibili. Più cadenze sapremo riprodurre, migliore sarà la nostra dizione italiana, sempre per i motivi di cui sopra. 

In conclusione: Ave Ninchi non studiava le lingue straniere, studiava i dialetti, studiava nel vero senso della parola, con esercizi e quadernino; non so quanti ne parlasse alla perfezione, pare almeno una decina, tanto da essere scritturata per commedie in romanesco, in catanese, in fiorentino, in veneziano... Lei che era marchigiana d nascita e triestina di adozione. Oggi magari questo sarebbe troppo, ma la grande Ave sapeva che quella conoscenza era, oltre che un personale piacere, una opportunità di lavoro. Forse questo, degli attori in erba, dovrebbero tenerlo presente, poiché la cosa più importante per un attore è il lavoro. 

E chiudiamo davvero con una obiezione che so mi verrà fatta: "il napoletano non è un dialetto, è una lingua", "il veneziano non è un dialetto, è una lingua", "il siciliano non è un...", e via dicendo. Questa frase ha certamente l'amoroso intento di dar senso di nobiltà a tutta la nostra cultura popolare, ed io l'apprezzo anche se sono stanco di sentirmela ripetere. Allora forse va chiarito: qual è la lingua di un popolo? 
Ebbi la fortuna, durante un piccolo convegno, di parlarne con Edoardo Sanguineti, e la sua soluzione mi pare ancora oggi la più interessante: la lingua è quella in cui un popolo scrive le sue leggi, poiché si presume che tutti possano accedervi, leggerle e capirle; ma è anche il frutto di un sentire comune, di un sentimento condiviso, di una intenzione a volta inspiegabile proprio a parole che però ciascuno riconosce come propria e quale segno della propria appartenenza. 
Possiamo dire lo stesso per i dialetti? Sì e no. Sì, in quanto abitanti di un territorio e facenti parte di una comunità; no, in quanto quel nostro dialetto non è condiviso da altri di regioni diversi ma appartenenti alla stessa nazione. E questo non mi pare proprio difficile da comprendere. 
Ma fatta salva la netta cesura che può e deve esistere tra dialetto e lingua, quel che conta è che il dialetto è le nostre radici, è la nostra terra, il nostro stesso corpo che proprio come un albero è radicato al terreno in cui cresce, o in cui è cresciuto; perdere il dialetto è perdere radici, è indebolire l'albero, è lasciarci in balia di qualsiasi vento; è la forza della tradizione, che è sempre uguale, ma sempre cambia nei giorni, perché tradizione e tradire hanno la stessa radice, e ogni tradizione resta viva solo se diviene nostra, di ciascuno di noi, e divenendo nostra, del singolo prima ancora che della comunità, cambia sempre quel poco che la farà perpetuamente viva.
Il tradimento è la reale forza di questo continuo passaggio che tiene vivo ciò che siamo stati, che siamo e che diversi e immutabili sempre saremo.   

giovedì 4 gennaio 2024

"NON TI PAGO" LA PASTA E FAGIOLI!


Ho visto i primi 20' di questo "Non ti pago" di Castellitto e De Angelis su Raiplay.
Inizio leggendo "tratto da..." e già respiro profondamente. 
Poi: "soggetto di Eduardo De Filippo, Sceneggiatura di tizio e caio...", e qui respiro ancor più profondamente e per due volte!
Poi inizia il film. Nessun problema con Ferdinando vestito da marinaio con un pappagallo sulla spalla. Vabbè è un'idea come un'altra, respiro ancora profondamente ma vediamo dove vanno a parare.
Quindi si entra in casa e qui c'è il vero e proprio inizio della commedia. Come si può leggere nel testo o vedere nella edizione televisiva, ci sono la padrona di casa, Concetta, moglie di don Ferdinando, e la cameriera intente a pulire una verdura, tipo fagiolini o broccoletti. E la prima battuta è della cameriera: "Signo', una volta dobbiamo fare PASTA E PISELLI, è tanto che non la facciamo".
Bene, nel film le due donne stanno sgranando i piselli e la cameriera dice: "SIgno', una volta dobbiamo fare PASTA E FAGIOLI, è tanto che non la facciamo".
Domanda: ma quale caxxo è la necessità di questo cambio, quale mistero interpretativo si nasconde sotto questa inutile variazione, perché?
Io, che penso sempre male e sono un dannato complottista, ho immaginato che gli sceneggiatori abbiano ipotizzato che, siccome gli addetti della SIAE pare siano usi leggere solo le prime pagine per verificare l'originalità del soggetto, questa bella variazione proprio a prima battuta già indirizzava l'esaminatore verso un pieno placet al "nuovo soggetto"; in questo modo i diritti d'autore degli sceneggiatori possono considerarsi assicurati. 
Capisco - e ribadisco - sono un dannato complottista malato e incurabile, ma francamente, rispetto al trasformare i fratelli Frungillo in due donne, a mostrare il professore che dorme invece di interloquire con il protagonista, e tutte le altre assurdità che ho visto in venti minuti venti!, tutte cose che posso comprendere nella esasperante voglia contemporanea di fare per forza tutto "strano" , questa, perdonate, stronzata di una innocua pasta e piselli che diventa pasta e fagioli proprio non si capisce se non facendo l'ipotesi maligna che ho fatto. 

Devo invece dire che sono stato a vedere il Natale in casa Cupiello di Vincenzo Salemme, e ne sono rimasto favorevolmente colpito proprio perché Salemme, così come è accaduto in altri casi, penso alla Moriconi, alla Isa Danieli, a Patroni Griffi, a Geppy Glaijeses, ha fatto il suo Eduardo, con la sua netta impronta, senza fare stranezze con Eduardo. 
Dunque, si può fare. Certo che si può fare, basta essere capaci di fare una corretta analisi del testo e da lì partire per la propria interpretazione. Non dimenticherò mai la Filumena di Valeria Moriconi, per la regia di Egisto Marcucci, con un bravissimo Massimo De Francovich nel ruolo che fu di Eduardo. Lo scontro tra di sessi era profondo e intenso, pareva di assistere a uno Strinberg, Eduardo ne usciva splendidamente esaltato. 

Poi ci son quelli che "'o famo strano" e allora... venti minuti, ho smesso! C'è un limite a tutto. Anche alla quantità di bicarbonato che posso ingerire.

giovedì 21 dicembre 2023

Il MES è morto, VIVA L'ITALIA


La Camera respinge. Spiaze...

Addio #MES 

Grazie a coloro che si sono spesi quotidianamente in questa battaglia per salvare l'Italia, a cominciare da Claudio Borghi e Alberto Bagnai, Lidia Undiemi, Marco Zanni, Antonio Rinaldi, Matteo Salvini, la Lega nel suo complesso... E tutti quelli che sui social hanno combattuto tenacemente questa battaglia quasi di retroguardia, silenziosa, dura e costante.

Un grazie anche a Giorgia Meloni e a Fratelli d'Italia. È un grande passo, e chi oggi non capisce, tranquilli, domani capirà.

La Storia è come il vento, non la fermi con le mani, ma col lavoro onesto e sincero... quanto meno la spingi dove credi sia più giusto. 

Grazie. 

domenica 17 dicembre 2023

IL PNEUMA TRAGICO. SEBASTIANO LO MONACO, UN GRANDE ATTORE

 in questo post parlerò in modo esplicito, e non mi importa di quel che penserete o se vi scandalizzerete (magari, sono sempre più preoccupato dalla indifferenza della gente verso tutto quel che le accade intorno, tutto vi va bene, nulla vi riguarda, salvo poi risvegliarvi quando le sfortune toccano voi. magara vi si vedesse scandalizzati!) 


Sebastiano Lo Monaco, Floridia 18/9/1958 - Roma, 16/12/2023  
ATTORE


Il funerale di Sebastiano Lo Monaco sarà celebrato martedì 19 dicembre 2023 alle ore 12:00 presso la Basilica di Santa Maria in Montesanto - Chiesa degli Artisti - Piazza del Popolo - Roma 

Sebastiano Lo Monaco è stato un grande attore!
Un attore troppo spesso vilipeso da quella intellighenzia italica che non si accontenta di criticare le persone, le distrugge pian piano. 
Ha lottato tutta la sua breve vita (solo 65 anni, e sono decisamente pochi, cazzo!) per affermare il suo modo di essere e di fare teatro, quello di un attore totale, a tutto tondo, come non ne esistono più. 
Oggi vige il conformismo, anche il conformismo degli alternativi e dei ribelli, e coloro che si credono totalmente attori hanno sguardo solo per il proprio ego e alla soddisfazione di questo mirano, null'altro, il Teatro viene dopo. 
Per il bistrattato Sebastiano Lo Monaco, che aveva un ego smisurato, un ego che a volte gli faceva compiere anche cose contrarie all'educazione teatrale, parrà strano agli stolti, ma il Teatro veniva sempre prima! E intendiamoci, le sue sregolatezze erano piccole cadute, deroghe che suscitavano, in chi lo conosceva, soltanto una simpatica tenerezza.
Una volta, un ragazzo, un allievo dell'Accademia (la Silvio D'Amico, ne esistono forse altre?), chiese a Gabriele Lavia - altro siciliano come Lo Monaco, e i due avevano profonda stima reciproca - per quale motivo quell'anno avesse deciso di mettere in scena Edipo. Ero presente all'incontro, Lavia rispose che "un attore che non vuole fare Edipo non è un attore", e che poi c'erano dei motivi suoi personali che privati erano e tali rimanevano. 
Ecco, la differenza tra questi grandi e voi altri è che loro voglio essere Edipo, Otello, o il Padre dei Sei personaggi, perché questo un attore deve volere, ma servono il Teatro e lo ringraziano perché consente loro di soddisfare i bisogni del proprio ego. Altri cialtroni, che disprezzano quei Maestri, usano il Teatro per le proprie masturbazioni, mentali e spesso anche fisiche, visto che sono incapaci di una completa scopata!  
Sebastiano voleva fare i grandi personaggi, ma la sua preoccupazione era che lo spettacolo doveva essere degno di tal nome, ci volevano grandi registi, bravi attori, ottimi scenografi e costumisti, bravi disegnatori luci, ecc. ecc. Perché tutto doveva essere per il Teatro prima che per sé! La propria soddisfazione era completa solo se tutto era di altissimo livello. "Il pubblico deve entrare in un albergo 5 stelle - mi disse una sera Sebastiano - un 4 stelle con la spa sembra lo stesso, ma non lo è". Come dargli torto.

Memorabile il suo Cirano, a dir poco spettacolare, con una strepitosa regia di Patroni Griffi (ed è in questo successo e questa allegria che portava nelle sue compagnie che voglio ricordarlo. E sentite cosa sono gli applausi, altro che Scala!);  



straziante il suo Eddy dello Sguardo dal Ponte;

con Marina Biondi







grande il suo Edipo, splendido il suo Enrico IV... fino alla esplosione di simpatia di un personaggio da lui molto distante ma che creò con sapienza e gioia: il Gervasio Savastano del "Non è vero... ma ci credo" di Peppino De Filippo. 

con Alfonso Liguori (sic)






Non voglio stare qui, però, a fare una cronaca della sua vita. Voglio invece dire una cosa a tutti coloro che lo hanno ostacolato sempre. 
Gliene hanno dette di tutti i colori, che era raccomandato, che usava i soldi di famiglia, che aveva strani intrallazzi... e, ovvio siccome era siciliano, che aveva a che fare con la criminalità organizzata. Una volta fu portato anche sotto inchiesta con accuse simili, ma mi spiace per i suoi detrattori, ne uscì pulitissimo, perfettamente pulito, perché Sebastiano Lo Monaco - e ve lo voglio scrivere in maiuscolo - ERA UNA PERSONA PER BENE! Lui era una persona perbene, altri non so! 

Cosa ha mosso i suoi detrattori? L'invidia, certamente l'invidia. E l'incapacità di comprendere che nasce da una ignoranza teatrale profonda.
Come faceva, secondo loro, questo ragazzone arrivato dalla provincia di Siracusa a essersi costruito una propria Compagnia, ad avere una carriera, a riempire i teatri? Non era possibile. 
Bene: innanzi tutto, Sebastiano veniva dall'Accademia (che ce n'è sempre una sola, la Silvio D'Amico, ci spiace per gli altri), poi aveva fatto i suoi anni di gavetta, in grandi Compagnie, come per esempio allo Stabile di Torino, ma soprattutto, Lo Monaco, nel momento in cui mise su la sua SiciliaTeatro, lavorava dalla mattina alla notte, telefonando, mantenendo rapporti, sorbendosi pranzi e cene che spesso nemmeno gli andavano, facendo viaggi assurdi per incontrare un assessore o un direttore di teatro che doveva convincere a prendere lo spettacolo; faceva insomma quello che fanno coloro che seriamenta fanno il suo stesso lavoro di vecchio e sano e faticoso capocomicato, penso per esempio a Geppy Gleijeses.
E poi rischiando, mettendo i capitali di tasca propria, a volte quelli che non c'erano facendo andare ai matti gli amministratori e il suo bravissimo fratello Santi, che non a caso è un giovanotto venuto fuori dalla Bocconi quando la Bocconi era la Bocconi e non una fucina di neoliberisti creati con lo stampino;  cercando sponsor e coproduzioni, inventando soluzioni per la scena, trattando se necessitava le paghe lui stesso... e non stando ad aspettare la sovvenzione statale o, peggio, l'appoggio del partito politico per una circuitazione facile facile. No, la circuitazione Sebastiano se la sudava, la sua agenda pareva quella famosa di Gianni Minà, girava con mazzette di foglietti pieni di appunti e cose da fare. Insomma, il bistrattato Seba si faceva un culo che altri si sognano! Combattendo quotidianamente con la burocrazia e l'ostracismo di una certa politica di sinistra che si crede superiore a tutto, anche a se stessa ormai. 
Ecco come faceva. E in tutto questo riusciva pure ad arrivare a teatro la sera raccontando che era andato a vedere la bella mostra allestita nella città che ci ospitava, perché mi spiace sempre per i detrattori, ma quel giovanottone di Floridia era pure colto, mannaggia a lui! 

Ma la cosa che più infastidiva i suoi detrattori è stato il non capirne la recitazione, e questo per ignoranza. Sebastiano aveva mezzi tecnici enormi e quando era supportato da un grande regista riusciva a dare prove semplicemente eccezionali. 
Seba era nato a Floridia, provincia di Siracusa, attaccata a Siracusa, quasi una frazione, e come è ovvio il primo teatro che ha visto è stato quello greco, quello delle grandi tragedie classiche, quando gli attori andavano ancora senza microfono e ci volevano polmoni, dizione e grande declamazione. Nel suo essere "tanto", grande, spesso anche esagerato c'era questa radice, la radice della grande tragedia portata al pubblico con tutta la immensa teatralità degli antichi. Sebastiano era un attore ottocentesco, di quelli plastici nel gesto, avvolgenti nel respiro, netti nella dizione, un grande attore di un'epoca antica; guardandolo si riconoscevano in lui i segni di un Talli, un Ernesto Rossi, un Tommaso Salvini, un giovane Ermete Zacconi ancora vivi sulla scena, e tutto questo la modernità sciatta del minimalismo radical chic, delle interiorizzazioni millantate, della semplicità come scusa a coprire le proprie incapacità, non poteva tollerarlo, non poteva tollerale il contraltare veracemente teatrale di quella forza fisica, la potenza, la sfrontatezza con cui Lo Monaco si dava in pasto alla cavea del Teatro Greco siracusano ricolmo in pieno giorno di mille colori di magliette e cappellini al sole. 
Sebastiano aveva una cosa che nessuno di noi ha più, una cosa insegnatami da un altro grande, Mariano Rigillo, aveva il PNEUMA TRAGICO: il grande respiro della possente declamazione antica della tragedia. Seba ci ha lasciato, a voi restano i microfoni. 

Sebastiano se n'è andato il 16 dicembre. Se lo è portato via un brutto male. Io voglio pensare che abbia in qualche modo mollato, stanco di questa immensa battaglia con un mondo che non poteva capirlo perché non ne aveva gli strumenti, e perché quel mondo non ama mai i suoi figli migliori, orgogliosi e autonomi, ma solo quelli che si prostituiscono. 
Era stanco. Eravamo stanchi. Ce lo siamo confidati un giorno in macchina, girando per la sua Sicilia, soli, io e lui, che, ciascuno per i propri ruoli raggiunti, lui come Primattore-capocomico, io come attore da secondi o terzi ruoli, non potevamo pensare di ricominciare ogni volta da capo come se tutto quanto fatto non contasse nulla. Era stanco. Ora riposa, e può dormire, lui sì, il sonno dei giusti. Di sicuro è in quel Paradiso che in età avanzata aveva scoperto con amore e devozione, in compagnia del Rosario che si portava sempre in tasca, e nella serenità che sapeva di andare ad abbracciare. 

C'è un episodio, un episodio che racconta il mondo duro, perfido, ma onesto, profondamente onesto del Teatro che fu e che sempre più ci manca e ci lascia soli. 
Quando Lo Monaco era allievo in Accademia, arrivò a insegnare Mario Ferrero (1979). Mario era talvolta intransigente fino alla insopportabilità. Sebastiano, da giovane appassionato del mestiere di attore, si comportava in un modo che il Maestro non gradiva: la sera faceva tardi a teatro, seguiva le compagnie a cena fino a notte fonda, e il risultato era che la mattina non si presentava a lezione. 
La rottura fu forte, tanto che Ferrero pose alla direzione dell'Accademia un aut-aut: o lo rimettevano in riga o Mario se ne andava. La questione fu ricomposta, ma i due non si amarono mai particolarmente. 
Ebbene, facevamo "Uno sguardo dal ponte" di A. Miller (2001), regia Giuseppe Patroni Griffi, al Teatro Eliseo. Ferrero, che è stato anche mio Maestro, venne a vederci. A fine spettacolo lo percepì come pensieroso; lo accompagnai in auto a casa e a un certo punto mi disse: "Ho visto Stoppa, tanti anni fa, la regia di Visconti, lo sai. Beh, Sebastiano è più bravo di Stoppa. Stoppa era bravissimo, ma antipatico, Sebastiano è umano, riesce a fare, in questo personaggio tremendo, tenerezza, una grande tenerezza, che ti viene voglia di abbracciarlo, non ostante Eddy Carbone sia uno schifoso, ma ne senti l'umanità. In Stoppa questo non c'era. Sarà anche merito di Peppino che lo ha guidato, ma lui ci è riuscito. Bravo, proprio bravo".

Credo non ci sia altro da aggiungere. 
Sempre nel cuore, Seba, sempre nel cuore. A Dio. 


La Compagnia di "Uno sguardo dal Ponte" al termine di una prova al Vittorio Emanuele di Messina
di spalle Aldo Terlizzi, Giuseppe Patroni Griffi, poi Sebastiano Lo Monaco

 

venerdì 24 novembre 2023

IL CONTROLLO, UNA NECESSITA' ESPRESSIVA (post tecnico ma non troppo - e buon #goofy12 a tutti)

Questo è quello che il nostro amico e mentore Alberto Bagnai definirebbe un “post tecnico”. Non penso sia particolarmente complicato e tutti potranno seguirlo. 
Domani, nella ormai favolosa Montesilvano, comincia il dodicesimo convegno - che non c'è - dell’ Associazione - che non c'è - a/simmetrie, dal titolo “Euro, Mercati,Democrazia 2023 / Non è come sembra”, meglio noto alla community che non c'è come #goofy12.
Ancora una volta non avrò la possibilità di esserci (poiché mia condizione naturale è il non essere). In bocca al lupo a tutti i partecipanti che non ci saranno, vi seguiremo in streaming come sempre, e intanto, tra l’addormentarvi di stanotte e il caffè di domattina, potrete forse riflettere sulle poche note politiche che non ci sono in questo post, perché in teatro c’è sempre qualcosa di politico che volenti o nolenti attraversa la scena. Così è (anche se non ci pare)



 







Nessuno deve considerare il controllo come una gabbia, una costrizione, una ingessatura. Il controllo è una necessità espressiva di cui l’attore non può fare a meno. 
Eugenio Barba creò nel suo centro di studi teatrale, l’Odin teatret, a Holstebro, in Danimarca un semplicissimo esercizio: mettetevi in piedi, normalmente, in una posizione per voi comoda, gambe leggermente divaricate, braccia lungo il corpo, inspirate profondamente due o tre volte, quindi chiudete gli occhi; a questo punto cercate la più totale immobilità, concentratevi sullo “stare fermi”, ma durante l’esercizio osservate il comportamento del corpo, tutto ciò ch’esso fa, dalla testa alla punta dei piedi; tenete questa semplice posizione eretta ad occhi chiusi, per cinque o anche più minuti; alla fine ciascun partecipante riferisca quanto ha osservato durante l’esercizio
Ebbene, Barba ci dice che tutti coloro che eseguono l’esercizio raccontano di micromovimenti che il corpo fa per tenere la posizione, per compensare, per riequilibrare, per sostenere ora in un punto, ora in un altro. Faccio eseguire sempre ai miei allievi questo esercizio e i risultati sono esattamente e sempre gli stessi: micromovimenti!

Se ne deduce che la stabilità non è naturale, ma che la condizione naturale del corpo è nella instabilità, nel movimento, nella tensione verso il movimento che di volta in volta il corpo stesso tende a compensare. Se dunque vogliamo la stabilità dobbiamo cercarla e “imporla” al corpo. 

Parentesi: dovremmo forse far provare questo esercizio a tutti quei politici che si lamentano per la instabilità dei governi nel nostro Paese, e che ossessivamente invocano la stabilità; la stabilità può essere temporaneamente tenuta, ma, nessuno si illuda, non per legge, solo per volontà. La stabilità dipende dagli uomini, non dalle leggi.

Facciamo un passo avanti. Quante volte vi siete sentiti chiedere: “A che stai pensando?”, e quante volte avete risposto: “A niente”? Eppure tutti noi sappiamo che non è vero, che qualcosa sta sempre attraversando la nostra mente. Sappiamo anche che per pensare a una determinata cosa dobbiamo volerlo e che comunque quel pensiero voluto può sfuggirci in qualsiasi momento. Se dunque, anche in questo caso, vogliamo un pensiero stabile dobbiamo “imporlo” alla nostra mente
Terzo e ultimo passaggio. Non ce ne accorgiamo perché siamo la nostra voce, siamo nella nostra stessa voce, siamo naturalmente nella sua espressività, ma per comunicare un determinato concetto noi “miriamo” la voce come una freccia mira al centro del bersaglio; pur non accorgendocene, potremmo dire pur non sapendolo, noi decidiamo come usarla, se vogliamo mostrare rabbia, o dolcezza, o allegria, o sarcasmo, o se abbiamo bisogno di aiuto. Se non lo facessimo la nostra voce “scapperebbe”, se andrebbe per i fatti suoi sganciata dai nostri bisogni espressivi. È un po’ la differenza, per fare un esempio facile, che intercorre tra cantare in modo intonato e stonare: chi intona vuole emettere determinati suoi, chi stona non riesce a controllare la propria emissione. Allora, anche in questo caso se vogliamo la stabilità della espressione vocale dobbiamo cercarla e “imporla” alla nostra voce.

Corpo, pensiero, voce sono i tre elementi che integrandosi, e sostenendosi vicendevolmente, che consustanziando ci consentono di esprimerci nella recitazione, e che, come abbiamo rapidamente osservato, necessitano tutti di una nostra decisa guida. Perché il fatto che ci consentano l’espressione non basta, è necessario che l’espressione sia corretta.
Ma cosa intendiamo per corretta? Sinteticamente, intendiamo: far sì che al pubblico arrivi, con la maggiore precisione che ci è possibile, quello che abbiamo dedotto dal testo, o che un regista ci sta chiedendo di far arrivare. In altre parole, noi decidiamo che quella tale battuta significa una certa cosa, e se vogliamo che quel che abbiamo deciso sia còlto dallo spettatore dobbiamo indirizzare l’espressione artistica, e dunque “pilotare” il pensiero, il corpo, la voce perché dicano esattamente quello che noi vogliamo dire.

Se a questo punto tutto il ragionamento è chiaro, sarà facile comprendere che il concetto di controllo non è per niente una gabbia, una corazza che mettiamo sulla nostra espressività, ma il veicolo attraverso la quale questa raggiunge i suoi migliori risultati. Come possiamo, però, attuare questo controllo? Sicuramente attraverso la concentrazione, nel senso più etimologico del termine, vale a dire “spingere nel centro o raccogliere nel centro; profondarsi, internarsi in chicchessia” dice lo storico Dizionario Etimologico della Lingua italiana di Ottorino Pianigiani, e per ottenere questo deve entrare in gioco la volontà. Per cui, vorrò escludere dalla mia mente tutti i pensieri che non siano quello stabilito, vorrò che la mia voce emetta un preciso suono, vorrò che il mio corpo compia un esatto movimento (o non lo compia, che è concettualmente lo stesso).

La commistione di concentrazione e volontà fa in entrare in campo un altro fondamentale elemento, del quale ci occuperemo in un prossimo post: l’energia.   


martedì 17 ottobre 2023

"E VONNO FA' ER TEATRO!", COME IL TEATRO ACCREBBE IN NOI L'AMORE

Arrivano, e mi dicono che vogliono fare gli attori. Bene, mi fa immensamente piacere. Così, cominciamo a lavorare.
Nel corso dei giorni mi capita di far riferimento ad autori, a registi, ad attori del passato o del presente, di teatro, cinema, talvolta anche di televisione, è una cosa normale, sarebbe come parlare di Leopardi senza far mai riferimento a Dante o a Petrarca, o di Picasso senza mai nominare Raffaello o Manet. 
Praticamente è impossibile: non puoi pensare di apprendere nulla senza avere come riferimento chi ti ha preceduto in quello stesso campo e spesso anche in altriAnzi, personalmente ho sempre sostenuto e continuo a sostenere, che per capire davvero la propria arte è bene guardare alle altri arti, alla danza, al canto, alla letteratura, ecc. Perché se vuoi essere attore e guardi esclusivamente alla recitazione, rischi di far la fine di colui che vuole osservare il dipinto tenendo il viso a due centimetri dalla tela; se invece guardi alle altre arti hai un effetto distanziamento che può aiutarti ad avere una visione complessiva. 
Conosco l'obiezione a questo punto: "Dunque, i giovani fan bene a non seguire il teatro, o gli attori". Assolutamente no, non fanno bene: osservare il dipinto nella sua totalità è decisamente utile, ma se vuoi capire come è dipinto devi avvicinare lo sguardo, e anche parecchio, talvolta usare anche una lente di ingrandimento. 
Perché il "come è fatto" è importantissimo, anzi è fondamentale!
Per chi soprattutto vuole intraprendere questo percorso artistico, abbracciare questa professione, farne il proprio lavoro, non conta tanto quel che le opere dicono, ma il come sono eseguite, interpretate, ri-create, messe in scena, recitate. Poiché la recitazione è un atto del come! 
Capisco possa sembrare una bestemmia, ma il "cosa" praticamente non conta. 
Per spiegarlo faccio sempre un esempio (già riportato anche su questo blog):

chiedo agli allievi
- Quante "Madonna con bambino" avete visto in vita vostra?
- Beh, tante...
- E perché alcune si ritengono migliori di altre, più belle, più emozionanti, interessanti o quel che vi pare? Eppure sono sempre il dipinto di una donna con un bimbo in braccio. Cosa fa la differenza se il contenuto è sempre lo stesso? 












Il testo di Amleto è sempre Amleto, "Sei personaggi" sempre "Sei personaggi" o, se preferite, la storia di un amore contrastato è sempre la storia di un amore contrastato, che sia in "Romeo e Giulietta", ne "La locandiera" o in "Fedra"!
Cos'è dunque che fa la differenza, tra la messa in scena di "Amleto" di Vittorio Gassman e quella di Gabriele Lavia? Certo non quel che il testo "Amleto" racconta, ma come io "racconto" quel testo, dove per "racconto" si deve intendere: come lo eseguo, come lo metto in scena, e soprattutto come ogni singolo attore recita il proprio ruolo.
I piani del "come" divengono, come potete immaginare, tantissimi, non complichiamoci per ora la vita e fermiamoci qui; consideriamo però, da attori o aspiranti tali, un singolo, ma determinante elemento:
la consapevolezza dell'importanza di quel "come" ti farà automaticamente salire di livello, da semplice interprete a creatore, ed è dunque proprio quel "come" a fare di te indiscutibilmente un artista.
Se poi piaci o no, se le tue creazioni piacciono o no, è un altro discorso. 

E torniamo adesso al nostro ragionamento di partenza: come puoi decidere, stabilire, identificare il tuo modo di raccontare se non hai un'idea, anche non approfondita, di come quella stessa storia è stata raccontata prima? Sarebbe nata "Guernica" così come Picasso l'ha dipinta se non ci fosse stata prima... la "Battaglia di San Romano" di Paolo Uccello? E attento, anche se la storia che racconti ti pare nuova, stai pur certo che in un qualche modo che non ravvisi è stata di sicuro già raccontata prima. Prendi ad esempio il mito di Eros e Psiche: Cenerentola, La locandiera, Aminta, fino a La ragazza di Bube, sono tutte riscritture di quel mito. 
Dunque, il rapporto col passato, che qualcuno vorrebbe cancellare o riscrivere a proprio uso e consumo, è fondamentale per costruire il presente nonché il futuro. Siamo oggi quel che siamo perché veniamo da un certo passato, ignorarlo non offre possibilità di nuova creazione, ma limita il futuro della propria creazione, il più delle volte nell'illusione di aver "inventato" qualcosa di nuovo, ma in Arte, spiace dirlo, nulla si inventa.

Nulla si inventa, se non un come, un come che di per sé non è nemmeno pura invenzione, ma tale ci appare perché è il nostro come. Nulla si inventa poiché ciascuno di noi è il frutto di tutto ciò che ha visto e sentito, ecco perché nemmeno quel come è puro. Ha un solo punto di forza: è tuo, poiché frutto della elaborazione, conscia e inconscia, di ogni informazione che ti ha attraversato nella vita. Non è poco, anzi; solo che a questo punto devi chiederti come potrai costruire una tua espressione attoriale se non hai rapporto con l'arte della recitazione che ti ha preceduto? Da dove attingerai quegli elementi grammaticali consolidatisi nel tempo, e che non solo gli attori conoscono, ma il pubblico riconosce? Come capirai senso e tempo di una pausa se, molto semplicemente, non hai mai visto eseguirne una? 
La recitazione, come ogni altra arte, ha una sua grammatica, una sua serie di codici espressivi che, seppure non scritti, gli attori si tramandano da generazioni e la maggior parte delle volte se li tramandano semplicemente "eseguendoli", guardare gli attori semplifica l'apprendimento; oltre tutto non è disprezzabile la pratica, al principio, di imitare un attore che ti piace, facilita le cose, è come trovare delle orme sulla sabbia e imparare a camminare rimettendo i piedi in quelle orme, una volta acquisita "la pratica del camminare" andrai spedito per i fatti tuoi, accade dalla notte dei tempi e nessuno ci ha mai trovato niente di strano: Giotto avrà iniziato copiando Cimabue, Puccini imitando Verdi, Pirandello scrivendo poesie alla Leopardi... 

In conclusione, spero di averti dato delle buone ragioni perché tu possa comprendere che se vuoi fare questo lavoro, se vuoi abbracciare questa professione devi, e ribadisco devi, conoscere chi c'è stato prima di te. 
Quando eravamo giovani noi, correvamo a teatro o al cinema dove e come potevamo (soprattutto noi delle piccole città di provincia), ci facevamo raccontare dai più grandi, leggevamo vecchie cronache. 
Oggi un ragazzo ha a disposizione uno strumento straordinario: internet, con tutti i suoi canali dove sono diffuse e conservate le grande interpretazioni del passato, le vecchie messe in scena, le commedie che ai giorni nostri sono fuori repertorio. E tutto questo ce l'hai sul tuo fott..o telefonino, a portata di due click. Eppure non guardi, non cerchi, non vai a vedere... 
E allora mi chiedo: sicuro che la tua sia passione per questa arte? Sicuro che il tuo non sia solo un bisogno di attenzione, di apparire, di salire su un palco e essere visto, riconosciuto come esistente? Perché per far questo hai altri mille modi, non è proprio necessario tu faccia l'attore, che è una professione faticosa, difficile, amara. 
Essere attori è un dono, divenirlo una fatica. Forse è proprio questo: oggi la tecnologia non vi pone più nella condizione di fare fatica. 
Il problema è che la passione è fatica, l'amore è lavoro e fatica, il raggiungimento del piacere è fatica (come dovrebbe sapere chiunque abbia una esperienza sessuale). Abbiamo tolto a queste giovani generazioni il piacere di fare fatica, lo abbiamo fatto noi, ora possiamo solo dirglielo e stimolarli, ma sono loro a dover credere di poterlo fare e a volerlo fare. 
Era divertente, esaltante, emozionante organizzarsi, noi diciottenni, in quattro, cinque dalla piccola Salerno, prendere di domenica mattina un treno (un Espresso, mica un'Alta Velocità!), arrivare a Roma, mangiare quella cosa che ci pareva esotica come un tramezzino conservato sotto un leggero panno di cotone, poi andare al Teatro Argentina per vedere "La grande magia" di Eduardo, con la regia di Strehler, e ancora oggi ricordare, il passo dinoccolato e affascinante di De Carmine, la nettezza di Franco Parenti, le misteriose luci del maestro, un teatro affascinante d'oro e passato, e poi uscire e riprendere un treno per tornare a raccontare la tua avventura nella piccola città.
E c'era chi lo faceva con un concerto rock, chi per un museo, chi per un'opera lirica... 
Forse era quella fatica, quella impossibilità apparente di raggiungere le cose che accresceva la nostra forza, il nostro desiderio, il nostro amore. 

domenica 15 ottobre 2023

Ibsen, Casa di bambola: NORVEGIA LIBERA!

L'importanza di Henrik Ibsen nella storia della drammaturgia mondiale è nota ai più. Certamente l'autore norvegese ha avuto il merito di dare regola a una tendenza che si stava già esplicitando in altri autori e altre nazioni, quella alla cosidetta "quarta parete", quella modalità di scrittura, recitativa e di messa in scena secondo la quale l'attore-personaggio considera "non esistente" il pubblico, e lo spettatore è come uno che metta l'occhio al buco di una ideale serratura attraverso cui spia i personaggi e la loro storia. 
Per capirci, nelle commedi di Goldoni, per esempio, quando un personaggio ha un cosiddetto a parte, cioè si esprime in solitaria, magari in una riflessione che è di commento all'azioneparla con il pubblico, lasciandoci intendere che l'interprete/personaggio ha piena coscienza della esistenza dello stesso. Dalla seconda metà dell'800 in poi, dalle teorie del Naturalismo in poi per intenderci, diviene impensabile il solo credere che il personaggio di una azione del 1400 possa sapere che non solo è su di un palcoscenico, ma che in sala ci siano spettatori del 1800. Ecco che si fa avanti l'idea, in fondo semplice, che tra platea e palcoscenico sia come elevata una ideale quarta parete che isoli l'azione. 
Bene, dopo questo spiegone - consideri il lettore addetto ai lavori che parliamo anche ai non addetti, grazie! - torniamo al nostro Ibsen. 
Dirvi che amo questo autore... beh, non particolarmente. Riconoscere grandezza e importanza di un artista non vuol dire per forza amarlo. Henrik Ibsen è per me un importante autore di teatro, a tratti straordinario, ma diciamo che non lo preferisco particolarmente. 
Ultimamente, selezionando scene per fare esercitare i miei allievi, ho dovuto, per ragioni anche storiografiche, scegliere l'ultima scena di una commedia che francamente trovo noiosissima: Casa di bambola, ultima scena che teatralmente è scritta magnificamente e che si presta per fare esercitare giovani menti, alla ricerca della logica, alla sottigliezza del dialogo, alla pregnanza e presenza di uno scontro più psicologico che non di azione. Non è certo la sola scena che offre elementi di esercizio del genere, ma tracciando un percorso storico, perché escludere il grande norvegese. 

Una amica, Francesca Fancini, laureata in Lingue con prima lingua il danese, mi raccontò che quando Danimarca e Norvegia si separarono - erano un unico regno - i norvegesi, per crearsi una loro lingua fecero una semplice operazione: presero a pronunciare le parole così come erano scritte, lettera per lettera, distinguendo in tal modo il danese dal neonato norvegese. 
Posso facilmente immaginare che Ibsen, come primo grande autore di quella nazione, sia particolarmente venerato anche come un codificatore della lingua, come Dante lo è per noi o Shakespeare per gli inglesi. 
La storia della Norvegia dell'800 fino alla sua piena indipendenza nel 1905 è un po' più complessa di un divorzio consensuale, e con una rapida ricerca in internet, come io ho fatto, scoprirete aspetti molto interessanti su questa nazione passata dai danesi a una sorta di indipendenza, poi sotto gli svedesi, fino al raggiungimento pieno dell'obiettivo. 

Ora: Casa di bambola fu una commedia che suscitò un grandissimo scandalo. Questa storia di una moglie che rifiuta il suo ruolo nel matrimonio, sia come consorte che come madre, e lascia tutto per una indipendenza senza certezze, per questo salto nel vuoto, sconvolgeva la morale del tempo al punto che al debutto in Germania Ibsen dovette modificare il finale poiché l'attrice si rifiutò di rappresentare questa madre degenere. 
Ebbene, ascoltando le parole di Ibsen dalla viva voce degli allievi, sono stato attraversato da un pensiero: siamo proprio certi che dietro la storia di Nora, scritta ad Amalfi, durante un viaggio di Ibsen in Italia nel 1879, all'Hotel Luna (c'è ancora la targa fuori a ricordo), 


ci sia solo la ribellione della donna che cerca la propria piena realizzazione il femminismo ante litteram, il sovvertimento dell'ordine morale costituito? 

Le ultime parole di Nora mi paiono di una strepitosa chiarezza, c'è in esse un anelito a una libertà che non si fa alcun problema per quel che sarà, sono le parole di chi preferisce tutto, anche la miseria, alla subordinazione, alla dipendenza, alla servitù. 

NORA (...) Sta bene, Torvald. I bambini non li voglio vedere. So che sono in migliori mani che nelle mie. Come sono ora io non valgo nulla per loro.
HELM. Ma più tardi, Nora, in seguito....
NORA. Posso forse saperlo? Non so mica cosa sarà di me!
HELM. Ma tu sei mia moglie, non soltanto ora ma anche....
NORA. Senti, Torvaldo. Quando una donna lascia la casa di suo marito come faccio io stanotte, allora, egli resta, secondo quanto ne so io della legge, liberato e dispensato da ogni obbligo verso di lei. Comunque sia però, io ti libero da ogni vincolo. Tu non devi sentirti menomamente incatenato, come non intendo d'esser legata io. Deve regnare la più ampia libertà da ambo le parti. (...)

Ho selezionato un solo passaggio esemplificativo, ma ascoltando tutta la scena (e questa edizione è straordinaria, con attori magnifici come Giulia Lazzarini e Renato De Carmine) ogni cosa pare uscire dalla nebbia: sotto sotto non è impensabile che il discorso di Ibsen sia volto all'anelito di libertà della sua nazione, della Norvegia. E non credo sia casuale che l'ispirazione giunga allo scrittore proprio in quel viaggio in una Italia che ha raggiunto la propria unità da poco tempo, quasi che il respirare questo senso di aria nuova spinga a cercarne altra e più pura per se stessi. 

Quanto questo aspetto sia rappresentabile non so, anzi, credo proprio che non lo sia, ma se c'è una verità in questo mio pensiero, prenderne consapevolezza aiuta sempre chi deve recitare il testo. 
Perché "un fatto è come un sacco, vuoto non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato", è la antica legge del teatro, della recitazione, che Pirandello ha così magnificamente sintetizzato: non tutto possiamo far capire al pubblico, come Lorenzo Salveti ci insegnava alla "Silvio D'Amico", ma il sapere è percepito dallo spettatore, un sacco pieno desterà sempre più interesse di un sacco vuoto. 

lunedì 9 ottobre 2023

LA TRISTEZZA DI "FARE SESSO"!

Non se ne può più dell'espressione "fare sesso", fa il paio con "faccio teatro". E' una espressione asettica, clinica, deprimente, al limite del volgare. Ai miei tempi di diceva "fare l'amore", oppure si usavano una serie di locuzioni o di forme dialettali. 

Cos'è "fare sesso"? Il nulla. La rappresentazione di una azione senza piacere, di un relazione senza godimento. 

Gli amatoriali dicono "faccio teatro", che non vuol dire nulla. Fai teatro come fai ginnastica, fai la spesa, fai le pulizie di casa. O si è attori o non lo si è, non esiste il fare teatro, se non per un dilettante. E così è "fare sesso", perché non sei in quella cosa, la fai, e il farla non contempla la tua totale presenza. Fai l'amore, se sei capace, fallo anche per una sola notte, o per una sola ora, anche con una sconosciuta/sconosciuto, senza limiti e senza inibizioni. 

Si fa l'amore perché si cerca l'amore nell'atto stesso della suo farsi, e facendolo quasi sempre lo si trova. 

Chi fa sesso trova solo una forma di masturbazione più complicata perché deve pure contemplare "il godimento della mano".