giovedì 26 giugno 2025

TUTTA, FORTE E CHIARA! (i fantastici detti degli attori di un tempo)

 Quando iniziai a lavorare in Teatro, c'erano una serie di vecchie e sintetiche indicazioni che ancora gli attori si lanciavano e rilanciavano, e che spesso solo loro capivano. 
Cosa vorrà dire, per esempio: "Perdi aria dal culo!". I giovani attori magari non lo sanno, ma sono certo che, come accadde a noi la prima volta che ce lo sentimmo dire, ne capirebbero subito il senso. Vuol dire che sei sul palco, stai recitando, o provando a farlo, ma non sei energico, teso, innervato, che insomma sei floscio, e l'aria, ma non quella intestinale come banalmente si potrebbe pensare, ma quella della emissione vocale, invece di uscire dalla bocca, si perde da altro orifizio. 
Oppure, ricordo, "passare la ribalta", che semplicemente era un invito a fare arrivare la voce fino in fondo alla sala, e che di sicuro se avesse passato la ribalta sarebbe appunto arrivata fino in fondo. 
Su questo c'è un simpatico aneddoto - decisamente per boomer - che una volta sentii raccontare da Giancarlo Fusco, un importante giornalista della seconda metà del Novecento, noto, oltre che per le capacità di cronista, anche per il suo amore per la buona tavola. Da giovane faceva il segretario di un importante grande attore, Ermete Zacconi. Un giorno chiacchierando con Zacconi e gli disse che un altro importante primattore aveva dichiarato di essere comunista. Al che Zacconi chiosò: "Comunista? Ma se la sua voce non si sente oltre la terza fila di poltrone!". 

Tornando a noi. Un giorno, Stefano Lescovelli, simpatico e bravo attore prematuramente scomparso, d'improvviso mi pose sotto un simpatico interrogatorio: "Giovanotto, se vuoi dirti attore devi rispondere a queste tre domande: 1) si mangia prima o dopo lo spettacolo, 2) che cos'è la decade, 3) di che colore è il bonifico?". Ero un po' perplesso, ma risposi, come si fa per rispetto verso i più anziani: "Si mangia dopo lo spettacolo, la decade sono dieci giorni di paga e si prende ogni dieci giorni... ma il bonifico... cos'è?". Già, perché almeno noi, un tempo, non avevamo l'abitudine di parlare per essere ascoltati, ai miei tempi non erano gli adulti a dover stare in silenzio per ascoltare cosa avevano da dire i giovani, ma i giovani a tacere, aprire le orecchie e apprendere da chi ne sapeva più di loro. Da troppo tempo abbiamo invertito le funzioni... e sappiamo tutti dove ci ritroviamo. 
Dunque, Stefano mi spiegò una cosa che non avrei mai potuto sapere perché davvero era di un'altra epoca: "il bonifico era un tagliando che la Compagnia dava a ciascun scritturato, che dovevi presentare alla biglietteria dei treni e con quello avevi lo sconto dato che viaggiavi per lavoro, il colore del bonifico era verde". 
Era tutto ovviamente un gioco, ma le tre domande mi spiegò, i vecchi attori le facevano davvero per verificare da quanto tempo tu fossi nel mestiere. A quel tempo il mestiere era molto fatto di fame, e gli attori andavano sul pratico, nelle loro bislacche domande c'era una capacità di sintesi che in qualche modo escludeva completamente la teoria per stare sulla pratica. Era profondamente "artigianato". Tutto questo prima che arrivasse Stanislavskji e che il suo verbo si diffondesse. 

Il gergo degli attori era ed è pieno di parole e frasi originali e divertenti, come: tinca, telefonare la battuta, impallato, spallarsi, andar di rimessa, birignao, fotta, fare burletta, soffiati, vuoto di scena e pieno di scena. 
Quella da cui però sono sempre stato affascinato è la realmente sintetica: TUTTA, FORTE E CHIARA! 

Tutta forte e chiara è il primo e più semplice consiglio che un anziano forniva a un giovane, e si riferisce al modo di dire la parte. 
Hai provato, sei arrivato a un buon risultato, ora devi andare in scena e hai ovviamente timore. Beh, non preoccuparti di mille cose, pensa a una cosa essenziale: di' la tua parte tutta, forte e chiara. 

Non è difficile da comprendere.
Dilla TUTTA, che evidentemente significa: abbi una perfetta memoria e non dimenticare nessuna battuta.
Dilla FORTE, in pratica: figliolo, fatti sentire fino all'ultima fila di poltrone e anche oltre.
CHIARA! E questo, a mio immodesto avviso, è il punto realmente interessante. Cosa vorrà dire CHIARA? 
Certo, per "chiara" si intende un banale "fatti capire", scandisci bene, metti timbro in tutte le parole, ecc. Ma ho il sospetto che nel sapiente artigianato dei nostri avi si nascondesse qualcosa di più. 

Io penso che per "chiara" si intenda non solo fai capire le parole, ma fai capire l'intenzione che c'è dietro, fai capire il senso che ti ha portato a decidere di dirla in un certo modo piuttosto che in un altro. Insomma, non serve solo che le parole siano intellegibili ma che sia limpido anche ciò che le determina in quel momento scenico e che realmente le riempie di senso. 
Denùdati, fammi capire davvero chi sei, chi è il personaggio che stai rappresentando, fammi capire i suoi pensieri, ed anche il senso dei suoi silenzi, lasciati attraversare dalla nettezza della scena e del tuo personaggio, lascialo vivere in te perché lo si possa "chiaramente" vedere vivere. 
Ed ecco che "chiara" non è più solo riferito alle parole, ma a te stesso interprete e allo sforzo che devi metterci per arrivare al risultato, al pubblico, al compimento effettivo dello spettacolo, al valore stesso del Teatro. 

Gli antichi non scrivevano teorie, tranne qualche primattore che raccoglieva le sue memorie e le proprie riflessioni sulla professione, non compilavano libri, ma per il resto tutto era artigianato, un modo sapiente di recepire il mestiere e di passarlo, capendosi su ciò che non poteva essere spiegato davvero a parole, intuendosi reciprocamente per ciò che le parole non potevano spiegare se non che con grandi e complicati giri. 

Gli artigiani fanno, non teorizzano. E deve essere per questo che quel "chiara" mi ha sempre affascinato: c'è un mondo, in una sola parola, che in verità solo chi è salito sul palcoscenico può comprendere, e non importa se non riuscirà mai a spiegarlo a parole, quel che conta è che salga sul palcoscenico e agisca, che sia attore, nella maniera più chiara che gli sia possibile.  

martedì 17 giugno 2025

ASTENSIONISMO, CHE CI SIA UNA RAGIONE TERRA TERRA?

 Lasciamo perdere il Referendum abrogativo dell'8 - 9 giugno, ché lì il quorum ha un senso costituzionale preciso, ragionato e a mio parere (che poco conta) più che corretto, per cui l'astensione ha un chiaro valore come modo di esprimere la propria opinione, per il resto delle consultazioni elettorali ho sempre sostenuto e continuo a sostenere che chi si astiene ha sempre torto. E non mi toglierete questo pensiero.
Nel resto delle tornate elettorali il quorum non c'è, dunque chi non sceglie non ha poi moralmente alcun diritto di recriminare o lamentarsi, anche se gli è assolutamente consentito dalla Costituzione... e dalla nostra pazienza. La verità è che per la democrazia, per essere veri democratici ci vuole un fegato di ferro, per ingoiare, digerire, filtrare tutte le sciocchezze che senti dagli altri, ma che gli altri hanno tutto il diritto di pensare e dire, anche perché è molto probabile che loro penseranno lo stesso di te. 

Ma al netto di tutto questo, è fin troppo evidente che da almeno venti anni a questa parte la partecipazione popolare alle tornate elettorali di vario ordine e grado vada scemando in modo preoccupante. Sul perché troverete certamente spiegazioni e teorie di alto valore scientifico, io ho una mia idea molto terra terra. 

La verità, secondo me, è che l'italiano ha sempre avuto una sorta di fastidio verso la politica, pur essendo uno degli animali più politici del globo. Il fatto è che egli vede la politica, e l'elezione del politico, come una delega, ma non in senso nobile, cioè: "Tu mi rappresenti", ma in senso pratico, talvolta eccessivamente pratico, poiché quando vota l'italiano medio vuol dire: "pensaci tu a 'sta cosa, io non ci voglio pensare ho altro da fare, e vedi di far funzionare il tutto. Insomma, fai bene e nun me scuccià!". 
Ora, tutto andava bene finché il danaro c'era e circolava, ma con l'ingresso nella UE, lo sappiamo, e con l'arrivo dell'euro, le cose si sono complicate e molto, per cui il politico, non trovandosi più in mano le disponibilità economiche di prima, non ha potuto fare quel che ci si aspettava da lui. Inoltre, impoverendosi la classe media, lo "stipendio del politico" al quale nessuno nel periodo della Lira faceva davvero caso, è diventato un parametro scatenante rabbia (sia pur scioccamente, ma così è). Ed ecco che le persone che delegavano han cominciato a vedere il politico come uno che non risolve - ma che senza denari non si cantano messe, a pochi viene in testa! - e che rispetto a me povero impiegato si prende pure un sacco di soldi (come se 5000 leuri al mese, che questo è l'effettivo stipendio di un parlamentare, fossero chissà quale cifra). 
Dunque: che ci vado a fare a votare gente che non mi serve e campa sulle mie spalle? (ditemi che non avete mai sentito questo tipo di ragionamento). 

Ma c'è una ragione ancora più profonda e legata sempre al sistema economico in cui ci siamo infognati: molte persone semplici, ma anche quelle non semplici (sic), andavano a votare perché conoscevano personalmente un politico, il quale era in grado di trovare un posto di lavoro al figlio, di velocizzare una pratica per l'invalidità o la pensione, farti avere il trasferimento più vicino a casa... Quello che insomma qualche moralista alla Alberto Sordi definiva come voto di scambio strettamente legato alla preferenza. Intere famiglie votavano per Tizio o Caio perché gli risolvevano i problemi. 
Oggi Tizio o Caio non hanno più potere, non possono più alzare il telefono e fare assumere il figlio del sig. Giovanni alle Poste, o di fare trasferire il carabiNIere Stelluti da Martina Franca a Rovereto, paese della sua famiglia. E questo sempre perché, per i motivi economici suddetti, hanno le mani legate. Tutti, bene o male, avevano un politico di riferimento, uno cui potevano rivolgersi per un problema, problema che quasi sempre poteva essere risolto in modo lecito, a differenza dell'idea che la narrazione ha diffuso e inculcato nella testa dei cittadini. 

Si potrà dire che oggi la politica, avendo perso la sua parte di "voto di scambio" sia più pura. Può darsi, ma quanto sarà mai pura una politica una politica in cui comunque sia il rappresentante dei cittadini ha le mani legate? 

Io trovo che votare sia sempre meglio, che gli assenti hanno sempre torto (tranne nell'abrogativo, come detto all'inizio), ma invece di stracciarsi le vesti dopo ogni elezione sulla non partecipazione al voto, proponendosi di far qualcosa per riportare gli italiani alle urne, chiediamoci davvero quali siano le ragioni profonde dell'astensione. Il malcontento? D'accordo, ma questo malcontento da dove nasce?

Capisco che la mia sia una spiegazione molto terra terra, ma magari ha un qualche senso. Chissà... 

venerdì 6 giugno 2025

SOVVEZIONI AL CINEMA, UN PRINCIPIO DA RIBALTARE

 La polemica sui soldi che lo Stato italiano destina alle produzioni cinematografiche non accenna a diminuire, come è nella logica delle cose quando un dibattito perde il suo valore di riflessione collettiva e diviene solo strumento di contrapposizione politica. 

L'attore Elio Germano



Da un lato, lo sappiamo, c'è il Governo del Paese che afferma di non poter sperperare i soldi dei cittadini, dall'altro gli uomini del Cinema che affermano che il governo fascista vuole togliere i soldi alla Cultura. 
Entrambi i modi di porre la questione sono a mio parere errati: se da un lato non si può valutare un'opera dell'ingegno sulla base dello sbiglettamento, dall'altro non si deve pretendere un contributo, a volte molto ma molto sostanzioso, sulla fiducia. 

Conosciamo i nomi di artisti che nel corso della Storia sono stati considerati meno di nulla per poi essere valutati come geni che producevano capolavori. da Van Gogh a Pirandello, da Wolfe a Manet, fino a qualcuno che ebbe il coraggio di affermare che Caravaggio aveva distrutto la pittura. 
Dunque, valutare un'opera come di scarso valore perché l'hanno vista i dodici non è un criterio valido. "I cancelli del cielo" di Michael Cimino è stato uno dei più grandi insuccessi della storia del cinema, ma dopo ci siamo accorti che era un film superlativo. Perché il valore artistico delle opere lo decide, sul serio, solo il tempo e la loro resistenza nel tempo. 

Ma dall'altro lato, parlare di Governo che non vuole sovvenzionare la Cultura è una bufala. Per un motivo simile al precedente, perché se un Governo vuole o no sostenere la Cultura non lo si decide sulla base della cifra che mette a disposizione. Un Governo, essendo un organo politico, deve fare azioni politiche, creare condizioni e criteri perché le attività culturali (non "la cultura" che è definizione molto generica) possano svilupparsi, perché i lavoratori dello Spettacolo abbiano occasioni di lavoro e siano tutelati, perché le produzioni possano nascere e andare in porto. Ed è possibile che tutto questo venga fatto con una spesa minima o addirittura senza spesa. E se così fosse, se arrivasse un governante che con una brillante idea (che io in questo momento non ho, mentre ne ho sul mio specifico, il Teatro, non so se brillanti ma ne ho), se arrivasse un parlamentare e avesse quella illuminazione che permette alle produzioni di agire pienamente con una minima spesa per lo Stato, sarebbe un male, chi avrebbe il coraggio di dire, in un Paese dove si creano le condizioni per il lavoro che questo sarebbe un male solo perché non arrivano tutti i soldi che noi vorremmo? 

Il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni


Come si può vedere, i due modi di affrontare il problema non sono corretti e avranno il solo risultato di perpetuare la ormai noiosa diatriba. 
Cosa dunque andrebbe fatto? Con franchezza non lo so, anche perché come dicevo, il mio specifico è il Teatro e non il Cinema, ma una perplessità in testa ce l'ho e da parecchio tempo. 
La sovvenzione teatrale esiste, ed è sacrosanta come qui ho potuto illustrare, non serve a tutelare il padrone ma il lavoratore, soprattutto quello di qualità (e per qualità intendo professionale).Ora, la sovvenzione teatrale viene elargita dopo che lo spettacolo è stato prodotto ed ha circuitato nei teatri. Per accedervi, come tanti amici Amministratori di Compagnia potrebbero raccontarvi, ci sono pacchi di moduli da riempire a volte anche con richieste folli, e questo anche a fronte di piani di produzione preventivi che vengono richiesti periodicamente, anch'essi con informazioni fuori da qualsiasi logica. Ma in pratica, i soldi si hanno dopo, ribadisco dopo, che il lavoro è stato prodotto ed è arrivato al pubblico. 
Quello che con il Cinema non torna, è che i soldi vengono assegnati prima, prima e sulla base di cosa? Di un progetto. E cosa sarebbe in realtà "un progetto"? Non vorrei dispiacervi, ma... un foglio di carta. Sì un foglio di carta (più o meno lungo), sul quale è scritto quel che si vorrebbe fare, cosa racconta la storia, chi sono i personaggi, gli interpreti... 
Mi pare evidente che questo sistema può presentare tante, troppo incrinature, di diverso genere, da quelle più facilmente immaginabili, alle più sottili e sotterranee. 
Poiché nessuno sa, sulla carta, come sarà quel film. E se tutte le inquadrature dovessero venire male, e se la storia fosse meno efficace di quanto si immagina, e se...?

E qui va inserito un altro aspetto: cos'è l'Arte e in conseguenza la Cultura. 
Per prima cosa: chi decide cosa è cosa non è Cultura. 
Faccio sempre questo esempio, e mi pare funzioni: se Cultura fosse il contenuto, allora la filodrammatica parrocchiale che mette in scena Medea, varrebbe più della farsa messa in scena da Peppino De Filippo. Quindi, può avere un senso giudicare sulla base di "un progetto"? No, perché quella storia potrebbe essere realizzata malissimo, e se anche il regista o gli interpreti fossero di comprovata fama e abilità, potrebbero "toppare" il film. Sappiamo bene che è successo! 
Non solo, ma siamo proprio certi che le storie che raccontiamo sono nuove, originali, o alla fin fine raccontiamo sempre le stesse dieci storie, che mutano solo in luogo e tempo?

E l'Arte, cos'è? Con franchezza non lo so, o meglio quel che so è troppo lungo e complicato da spiegarlo adesso. Di sicuro, l'Arte è una cosa che si vede dopo, nel tempo. Nel senso che quel che facciamo con il nostro mestiere è artigianato, è lavoro manuale (o intellettuale, il concetto non cambia) che si replica ogni giorno con perizia, poi un giorno qualcosa ci sfugge dalla mani e nel tempo gli altri, non noi esecutori, ma gli altri, si accorgono che è Arte. Un tal Francesco I chiese a Benvenuto Cellini di fargli una saliera, e il Cellini eseguì il compito come un bravo artigiano qualsiasi, una volta terminata ci si accorse che si era di fronte a un capolavoro. 

E potremmo continuare con gli esempi, ma in sintesi, io penso che la Cultura sia "il saper fare", la capacità di avere quotidianamente il mestiere tra le mani e svolgere il proprio compito, poi un giorno, senza che ce ne accorgiamo, ci sfugge il capolavoro. Forse. Chissà... 

Dunque, come si componga la diatriba Cinema-Governo non lo so, mi chiedo solo per quale motivo non si debbano pensare per il Cinema tempi e modi di sostegno economico simili a quelli del Teatro: fate, poi rendicontate, poi valutiamo ed elargiamo. Non è un sistema perfetto, ve lo dico subito, ma almeno ci sarebbe più trasparenza e meno discussioni. Noiose discussioni.