lunedì 28 aprile 2025

MEGALOPOLIS di F. F. COPPOLA, UN FILM BRUTTO MA APPREZZABILE!


 


Ieri sera ho visto Megalopolis, l'ultimo film di Francis Ford Coppola. Grande regista. Dovrebbe essere una garanzia. Invece il film è dannatamente brutto, brutto e pretenzioso che tutto ciò che riesce a mettere in scena è il provincialismo americano. 

I titoli di testa la indicano come "favola di F. F. Coppola", e tale è, vista l'ambientazione pseudo antica Roma, i nomi dei personaggi: Cesare Catilina, Cuius Crasso e roba del genere. Costumi e truccature da richiamare la città eterna, e poi sparse come il granone, a iosa, citazioni di Marco Aurelio, Shakespeare a gogò (a un certo punto il protagonista ci declama, non si capisce il perché l'Essere o non essere dell'Amleto... boh!), battute recitate in latino, cast stellare, dispendio di luci e costumi e scene e montaggio acrobatico, storia più banale che sconclusionata, gli USA come Roma conosceranno la stessa decadenza perché i suoi cittadini non credono più nel loro Stato, un po' di morale, un po' di lesbo, qualche nero piazzato ad hoc... Il tutto per due ore abbondanti di noia, noia pura, nelle quali un americano mostra come sia sotto sotto sempre abitato da quel senso di inferiorità che gli comporta l'essere nato in un Paese che non ha una storia antica. 

Insomma, quel Coppola che ci ha regalato - lo sappiamo tutti - capolavori assoluti come Dracula, la saga del Padrino, Apocalypse now, L'uomo della pioggia, il delizioso Tucker - un uomo e il suo sogno, il fantastico Cotton Club, e tanti altri bei film, stavolta ha proprio "lisciato". Succede, anche ai più grandi capita di far bruciare la torta, mancare il buco della ciambella, di inciampare in un brutto film che, a dirla tutta, non è nemmeno recitato benissimo. 

Un pregio, a mio parere, va però rilevato: Coppola il film lo ha scritto, diretto, ma soprattutto se lo è prodotto. A differenza di certi simpatici registi nostrani che pretendono di far capolavoro con soldi altrui o, peggio ancora, con soldi dello Stato, il vecchio Francis, potendolo ovviamente ormai permettere, rischia il suo per il suo. E fa più che bene. Se il film è brutto, questo aspetto è tutto da apprezzare. 
In fondo, quante volte, nei nostri sogni, abbiamo pensato: "Se vinco al Superenalotto mi tolgo questo sfizio", chi con l'arte, chi con i viaggi, chi con la casa, ecc? 
Io, per esempio, avessi la possibilità scommetterei sul nostro Giardino dei ciliegi in napoletano, e allora è più che giusto che Coppola con i suoi soldi faccia quel che vuole. I suoi, non dei contribuenti.





domenica 6 aprile 2025

GOLDONI, ROSSINI: COME TI RIVITALIZZO IL TEATRO

Rossini in un ritratto di M. F. C. Mayer


Goldoni in un ritratto di A. Longhi

La decisione di Gioachino Rossini (1792 – 1868) di scrivere le “fioriture” e di non lasciarle più alle improvvisazioni dei cantanti, mi chiama alla mente, e mi pare anche un facile collegamento, Carlo Goldoni (1707 – 1793) e la sua altrettanto determinata volontà di scrivere “tutto il testo”, scavalcando definitivamente il mondo della Commedia dell’Arte. 

Se però metto insieme i due elementi, da un lato il raffinato lavoro di collaborazione che Goldoni fa con i suoi attori prima di arrivare alla stesura definitiva del testo, dall’altro la profonda conoscenza che Rossini ha del canto per esser stato egli stesso cantante, figlio di cantante, marito di cantante, ed avere vissuto, anch’egli come Goldoni, gomito a gomito con i suoi interpreti, mi viene da pensare non ad una azione di sopraffazione dell’autore sugli interpreti, ma alla volontà di determinare, in ogni sua punto, la drammaturgia, letteraria o musicale che sia, donandole finalmente una nuova dignità, una dignità assoluta.

In questa azione, che mi appare sempre più effettivamente comune ai due, viene a ricrearsi, a rideterminarsi una nuova via del teatro, di prosa o musicale, una nuova letteratura che chiedendo agli interpreti un completo ridisegnarsi nella loro funzione, ne rimette in circolo, attivo e vitale, la fondamentale peculiarità. 

Sia Goldoni che Rossini, infatti, va rilevato, agiscono in un momento in cui le arti precipue di cantanti e attori hanno preso un così “ampio spazio” da divenire il manierismo di loro stesse (quasi una “decadenza”). Potremmo dunque affermare senza tema di smentita che entrambi gli autori focalizzano la loro azione sull’effetto finale ed unico del loro lavoro: la messa in scena.